martedì 26 gennaio 2010

L'Humanitas: da fragile scudo di fronte al destino a modello universale


Humanitas

Tidide magnanimo, perché mi chiedi la stirpe?
Come stirpi delle foglie, così sono anche le stirpi degli uomini.
Le foglie alcune il vento le getta a terra, ma altre le genera
La selva che fiorisce, quando giunge la stagione della primavera:
così le stirpi degli uomini: una nasce, l’altra scompare.
                                                                       (Omero, Iliade, 6, 145-149)

Noi, come le foglie che la stagione fiorita della primavera
Genera, qaundo germogliano ai raggi del sole,
simili a quelle godiamo per un tempo brevissimo
dei fiori della giovinezza,
senza conoscere dagli dèi, né il male
né il bene: ma sono già vicine le nere Chere…
                                                                       (Minnermo, fr.2 D)

Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che esistono in quanto esistono e di quelle che non esistono in quanto non esistono.
                                                                       (Protagora, fr. 1 D.K.)

Molte sono le cose che suscitano meraviglia
Ma nessuna suscita più meraviglia dell’uomo
[].
E imparò per sé la parola, e il pensiero veloce come il vento
E le leggi del vivere civile
E a fuggire i colpi dei geli ospitali
E le piogge rovinose,
l’uomo ricco di risorse: non c’è nulla
nel futuro che lo trovi privo di mezzi.
Solo dalla morte
Non si procurerà scampo.
                                                                       (Sofocle, Antigone vv. 332 e s. e 368-375)

Il filosofo Talete era solito dire che ringraziava il destino di tre cose: di essere nato uomo e non animale, maschio e non femmina, greco e non barbaro.
                                                                       (Diogene Laerzio, Raccolta, 1, 33)                                  
Atene ha onorato l’arte del parlare (tutti ne provano desiderio, e tutti invidiano chi la possiede), ben sapendo che questo solo, fra tutti gli animali, è per natura nostra particolare prerogativa e che perciò, se siamo superiori in questo, ci distinguiamo da tutti gli altri.
                                                                       (Isocrate, Panegirico, 48)

è la parola che ci ha fornito tutto ciò che abbiamo escogitato. Essa, infatti, ha stabilito ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è vello e ciò che è turpe, e se queste cose non fossero state stabilite, noi non saremmo in grado di vivere insieme. Attraverso la parola, disprezziamo i malvagi e lodiamo i buoni. Attraverso la parola, educhiamo gli ignoranti e lodiamo i sapienti: consideriamo, infatti, giustamente il saper parlare come si deve il massimo segno di saggezza, e un discorso veritiero e lecito e giusto è lo specchio di un’anima buona e affidabile.
                                                                       (Id., Antìdosis 254-255)

Devi usare la ricchezza, finché la possiedi, con liberalità, esser d’aiuto a tutti, agevolare quante più persone puoi. Queste azioni sono immortali, e qualora tu incappi in una sorte malvagia, gli altri si comporteranno così con te.
                                                                       (Menando, Misantropo, 805-810)



Cremete: benché fra noi la conoscenza sia recente, da quando hai comprato il campo, qui vicino, non ci sia stata fino ad ora altra occasione di conoscenza più approfondita, tuttavia, vuoi per la tua condotta impeccabile, vuoi perché sei mie vicino, cosa che io considero condizione simile all’amicizia, oso, in tutta amicizia, darti un consiglio: infatti mi sembra che tu ti affaccendi in un modo inadatto alla tua età e oltre il bisogno. In nome degli dèi e degli uomini, che cos’è che cerchi? Hai sessant’anni o forse più, come suppongo: nessuno dei paraggi ha un campo migliore o che valga di più. Hai moltissimi schiavi: e invece, come se non ne avessi nessuno, sei tu a fare con cura i lavori che spetterebbero a loro. Non esco mai così presto al mattino e non ritorno mai tanto tardi alla sera che non ti veda nel campo a zappare o arare o portare qualcosa; insomma, non ti concedi alcun riposo e non hai alcun riguardo verso te stesso. Son sicuro che non lo fai per piacere. Ma tu dirai: «Infatti mi dà fastidio quanto poco si lavori qui». Ma se tu impiegassi a far lavorare loro la fatica che fai a lavorare tu, otterresti un risultato migliore.
Menedemo: Cremete, hai tanto tempo libero da occuparti dei fatti degli altri, in cui non c’entri niente?
Cremete: Sono un uomo, e mi pare che nulla che riguardi l’uomo mi sia estraneo. Considera che questo sia un consiglio, oppure un dubbio: il tuo modo di fare è giusto? Allora voglio fare anch’io così. Non è giusto? Allora voglio distoglierne anche te.
Menedemo: Io ho le mie abitudini: tu fai secondo il tuo bisogno.
Cremete: Ma qual è quell’uomo che ha come abitudine quella di tormentarsi?
Menedemo: Io.
Cremete: Non vorrei, se hai qualche affanno…;ma che male è questo, chiedo? Perché ti consideri degno di un tale castigo?
Menedemo: Ahimè!
Cremete: non piangere, e confidati con me, di qualsiasi cosa si tratti. Non avere scrupoli, non aver timore, fidati di me; ti aiuterò, dandoti sollievo o coi consigli o coi fatti.

venerdì 22 gennaio 2010

Brani Cicerone (Pro Archia + De natura deorum)

Il valore della cultura
(Pro Archia, 12-16)
Nel 62 a.C., Cicerone prese le difese di un poeta greco, Archia, accusato da un tal Grazio, altrimenti ignoto, di aver usurpato la cittadinanza romana. Cicerone dedica poche battute alla questione propriamente giuridica, smontando facilmente le tesi dell’accusa, e si riserva invece un ampio spazio per celebrare il valore della cultura e della poesia.
Nel passo presentato egli rivendica con veemenza la legittimità dello studio della letteratura, quando però essa non porti ad un ritiro dalla vita pubblica. La cultura è anzi essenziale allo sviluppo di quelle doti che consentono poi all’individuo di giovare alla comunità. Quando una tale cultura si accompagni a un’indole naturalmente ben dotata, nasce la vera eccellenza; come al solito, gli esempi riportati sono romani: l’Emiliano, lelio, Furio (i personaggi più notevoli del circolo degli Scipioni) e Catone.

Mi chiedi, o Grazio, perché io frequenti così volentieri quest'uomo: perché è sempre disponibile, se solo ho tempo di rinfrancare l’animo dal questa confusione del foro e riposare un poco le orecchie, stanche del suo chiasso. O forse tu pensi che potremmo avere a disposizione abbondanza di argomenti per una tal varietà di cause, se non coltivassi il mio animo con lo studio? O pensi che il mio animo potrebbe sopportare una tale tensione, se con quello stesso studio non lo rilassassi?
Non ho certo problemi ad ammettere di essermi dedicato a questi studi; si vergognino gli altri, se si sono nascosti negli studi in modo da non portare nessun frutto alla collettività, senza produrre niente di notevole e illustre. Di che cosa dovrei vergognarmi io, giudici, che da tanti anni dedico la vita ai bisogni e ai vantaggi altrui, senza tenermi tempo né per il mio riposo, né per il mio piacere, e nemmeno per il mio sonno, che non mi hanno mai ritardato dai miei doveri?
Pertanto, chi potrebbe rimproverarmi, o a ragione arrabbiarsi con me, se prenderò per me stesso, per dedicarmi a questi studi, quel tempo che altri si concedono per i propri affari, per celebrare i giorni dei giochi, per gli altri piaceri e per riposare animo e corpo, quel tempo che alcuni dedicano a banchetti che cominciano prima del tramonto, o agiocare a dadi o a palla? E questo tempo bisogna concedermelo, tanto più che grazie a questi studi cresce anche la mia abilità oratoria, che, per quanta ce ne sia in me, non è mai mancata agli amici in difficoltà. E se a qualcuno pare che questa abilità sia cosa da poco, io so invece per certo da quale fonte attingere le cose davvero importanti.
Infatti, se non mi fossi persuaso fin dall’adolescenza, grazie ai precetti di molti e attraverso le molte letture, che nella vita non c’è nulla che valga sforzi e fatiche, se non la gloria e la virtù, e che nel ricercare questi valori bisogna non tenere conto di torture fisiche, rischio di morte e esilio, non mi sarei mai sottoposto, per salvare voi, a tante e tali lotte e a questi assalti quotidiani di uomini depravati. Ma i libri, le sentenze dei saggi, la tradizione, sono pieni di esempi: e tutta questa ricchezza giacerebbe nelle tenebre, se non intervenisse la luce della letteratura. Quante immagini di uomini eccezionali ci hanno lasciato gli scrittori, sia Greci che Latini, non solo perché le conoscessimo, ma soprattutto perché li imitassimo. E io sempre, nelle mie responsabilità di governo, tenendo questi esempi davanti agli occhi, conformavo ad essi il mio animo e la mia mente, riflettendo sulle vicende degli uomini illustri.
E qualcuno chiederà: «Dunque? Tutti quegli uomini illustri, di cui si celebra la virtù nei libri, furono intrisi di quella cultura, di cui tu ora tessi le lodi?». È difficile garantirlo di tutti, tuttavia son certo di quel che risponderei. Io ammetto che ci sono stati molti uomini straordinari e virtuosi, del tutto privi di cultura, per un’attitudine naturale quasi divina, e che sono stati temperati e autorevoli di per sé; e aggiungo anche questo: per ottenere gloria e virtù val di più una buona disposizione naturale senza cultura. Nondimeno affermo che, quando a un’indole eccellente e notevole si aggiunga anche una metodica formazione culturale e una conformazione dei comportamenti a tale cultura, allora di solito nasce qualcosa di straordinario e originale.
È da questo connubio che nacquero quell’uomo divino che fu l'Africano, che i vostri padri conobbero, e Lelio e Furio, uomini incredibilmente equilibrati e temperati; e il vecchio Catone, uomo eccellente e, per quei tempi, assai dotto: e se coloro avessero pensato che la letteratura non servisse in alcun modo ad ottenere e accrescere la virtù, allora certo non si sarebbero mai dedicati agli studi. Comunque, se da questo tipo di studi non scaturisse poi un frutto così nobile, ma si cercasse in esso solo il piacere, io penso che anche così dovreste giudicare questo divertimento perfettamente adatto a un uomo nobile e libero. Infatti gli altri diletti non sono sempre adeguati a tutte le circostanze, a tutte le età, a tutti i luoghi; mentre questi studi spronano gli adolescenti, dilettano gli anziani, abbelliscono i momenti di buona sorte, offrono sollievo e rifugio nelle avversità, portano gioia in casa, non sono inopportuni fuori, passano con noi la notte, stanno con noi a passeggio, vengono con noi in campagna.


Il segni dei privilegi dell’uomo
(De natura deorum, 2, 140-141 e 147-148)

Ad hanc providentiam naturae tam diligentem tamque sollertem adiungi multa possunt, e quibus intellegatur, quantae res hominibus a dis quamque eximiae tributae sint. Qui primum eos humo excitatos, celsos et erectos constituerunt, ut deorum cognitionem caelum intuentes capere possent. Sunt enim ex terra homines non ut incolae atque habitatores, sed quasi spectatores superarum rerum atque caelestium, quarum spectaculum ad nullum aliud genus animantium pertinet. Sensus autem interpretes ac nuntii rerum in capite tamquam in arce mirifice ad usus necessarios et facti et conlocati sunt. Nam oculi tamquam speculatores altissimum locum optinent, ex quo plurima conspicientes fungantur suo munere; [141] et aures, cum sonum percipere debeant, qui natura in sublime fertur, recte in altis corporum partibus collocatae sunt; itemque nares et, quod omnis odor ad supera fertur, recte sursum sunt et, quod cibi et potionis iudicium magnum earum est, non sine causa vicinitatem oris secutae sunt. Iam gustatus, qui sentire eorum, quibus vescimur, genera deberet, habitat in ea parte oris, qua esculentis et posculentis iter natura patefecit. Tactus autem toto corpore aequabiliter fusus est, ut omnes ictus omnesque minimos et frigoris et caloris adpulsus sentire possimus.

Iam vero animum ipsum mentemque hominis, rationem, consilium, prudentiam qui non divina cura perfecta esse perspicit, is his ipsis rebus mihi videtur carere. De quo dum disputarem, tuam mihi dari vellem, Cotta, eloquentiam. Quo enim tu illa modo diceres, quanta primum intellegentia, deinde consequentium rerum cum primis coniunctio et conprehensio esset in nobis; ex quo videlicet iudicamus, quid ex quibusque rebus efficiatur, idque ratione concludimus singulasque res definimus circumscripteque conplectimur, ex quo scientia intellegitur, quam vim habeat qualis[que] sit; qua ne in deo quidem est res ulla praestantior […]. Iam vero domina rerum, ut vos soletis dicere, eloquendi vis, quam est praeclara quamque divina. Quae primum efficit, ut et ea, quae ignoramus, discere et ea, quae scimus, alios docere possimus; deinde hac cohortamur, hac persuademus, hac consolamur adflictos, hac deducimus perterritos a timore, hac gestientes conprimimus, hac cupiditates iracundiasque restinguimus; haec nos iuris, legum, urbium societate devinxit, haec a vita inmani et fera segregavit.

martedì 19 gennaio 2010

Lo stile epistolare


Lo stile epistolare

Nello scrivere lettere i Romani utilizzavano un formulario convenzionale e pressochè invariabile: innanzitutto vi era il nome al nominativo del mittente, seguito dal nome del destianatario al dativo e dalla formula di saluto s.d. (salutem dicit),

Tullius s.d. Terentiae et Tulliae et Ciceroni  suis

o s.d.p. (salutem plurimam dicit), o semplicemente s. (salutem, con dicit sottinteso)

Cicero Basilio s.

. Sia il nome del mittente che il nome del destinatario potevano essere accompagnati da attributi (aggettivi affettuosi) o da apposizioni che indicavano le cariche ricoperte o i titoli onorifici attribuiti.

Cicero imp. s.d. Caesari imp.
Dove imperator è da intendersi come «generale vittorioso» e sancisce che entrambi hanno avuto, nella loro carriera politica, il comando militare (imperium) e riportato delle vittorie.

Potevano seguire formule convenzionali di cortesia come s.v.b.e. (si vales/valetis bene est), oppure (si vales/valetis bene est, ego quoque valeo). Esistevano poi formule particolari per le lettere ufficiali, indirizzate al popolo o al Senato: s.v.l.q.v.v.b.e.e.v. (si vos liberique vestri valetis bene est, ego valeo) o indirizzate ai generali o altri condottieri militari: s.t.e.q.v.b.e. (si tu exercitusque valetis bene est).

Vi erano, anche se non sempre, forma di commiato, generalmente non abbreviate come – vale/valete o cura/curate ut valeas/valeatis, fac/facite valeas/valeatis, da/date operam ut valeas/valeatis.

La lettera si concludeva solitamente con l’indicazione della data e del luogo. L’indicazione del giorno in cui la lettera era stata consegnata al tabellarius(il corriere privato) poteva essere preceduta da dabam («davo») con sottointeso l’oggetto epistola, o dal participio perfetto data («consegnata») con sottinteso il sostantivo epistula (costrutto dell’ablativo assoluto). È proprio dal participio perfetto data, tra l’altro, che deriva il sostantivo italiano «data» per indicare il giorno preciso del calendario in cui è accaduto qualche avvenimento.

Alla fine veniva posta la data del luogo in cui il mittente aveva scritto la lettera (in genere espresso con l’ablativo di provenienza o più raramente con il locativo).

Una particolarità dello stile epistolare riguarda infine l’uso dei tempi verbali e degli avverbi: infatti, dal momento che nel mondo antico le lettere impiegavano molto tempo per giungere a destinazione, il mittente si poneva nell’ottica del destinatario utilizzando i tempi verbali tenendo conto non del momento in cui la lettera vaniva scritta, ma del momento in cui sarebbe stata ricevuta dal destinatario. Ne consegue una serie di mutamenti nel sistema dei riferimento cronologici, che può essere così schematizzato:
A.     I tempi verbali
-          il presente viene sostituito dall’imperfetto (azione durativa) o dal perfetto (azione momentanea);
-          il perfetto logico o storico sono sostituiti dal piuccheperfetto
-          il futuro è sostituito dal participio futuro + eram
B.      Gli avverbi di tempo
-          hodie diventa eo die
-          heri diventa pridie
-          cras diventa postridie o postero die
Solitamente invece non subiscono mutamento gli avverbi nunc, etiam nunc, adhuc.

Tuttavia, soprattutto quando si scriveva qualcosa che non aveva stretto riferimento al tempo della composizione della lettera, l’applicazione di queste regole non era sempre rigorosa.

lunedì 18 gennaio 2010

La lingua d'uso latina


Come si parlava a Roma? La lingua d’uso nelle commedie di Plauto
Con l’espressione «lingua d’uso» si intende la lingua parlata (dal romano colto medio) le cui testimonianze letterarie, in latino, sono da rintracciarsi nella Commedia di Plauto e Terenzio, ma anche in Catullo e nello stile epistolare. Caratteristica di fondo della lingua d’uso è la centralità del dialogo, e, quindi, lo sforzo costante di mantenere desta l’attenzione dell’interlocutore, chiamandolo spesso in causa, coinvolgendolo in prima persona nel discorso. In virtù di questa sua natura dialogica, la lingua d’uso mette in atto una serie articolata di quelle che si potrebbero definire «strategie di comunicazione». Frequenti sono, ad esempio, i cosiddetti «stilemi affettivi», quei tratti di stile, o movenze del discorso) volti a catturare l’interesse emotivo dell’interlocutore, a coinvolgerlo in prima persona in quanto si sta dicendo. Ripetizioni, ridondanze, interiezioni, diminutivi affettivi (ma anche, di converso, imprecazioni) sono tutti modi per far entrare chi ascolta in quanto sta dicendo chi parla e, insieme, per conferire incisività al messaggio che si vuole veicolare all’interlocutore. Allo stesso scopo si riconduce un’altra caratteristica peculiare della lingua d’uso, la sua economicità; se infatti, da un lato, abbondano le ripetizioni e le ridondanze affettive, intese a sottolineare quanto viene detto e a imprimerlo nella mente dell’interlocutore, dall’altro lato le strutture sintattiche, ma anche il lessico, appaiono semplificate al massimo, quasi scarnificate: il soggetto è spesso sottinteso, e così le voci del verbo “essere”, la paratassi (cioè la giustapposizione delle proposizioni, che si affiancano l’una all’altra senza sottostare ad alcuna gerarchia, ad alcun rapporto di subordinazione e sovra ordinazione) prevale nettamente sull’ipotassi (la subordinazione), mentre, assai spesso, verbi dal significato estremamente generico (come facio, ad esempio) vengono impiegati in luogo di verbi più specifici e propri.

venerdì 15 gennaio 2010

Versione IV A

Lettera disperata alla moglie
Cicerone è in esilio lontano dalla moglie e sente la sua mancanza. Teme anche per i figli e per i suoi beni.


O me perditum! O afflictum! Quid enim? Rogem te, ut venias? Mulierem aegram, et corpore et animo confectam. Non rogem? Sine te igitur sim? Opinor, sic agam: si est spes nostri reditus, eam confirmes et rem adiuves; sin, ut ego metuo, transactum est, quoquo modo potes ad me fac venias. Unum hoc scito: si te habebo, non mihi videbor plane perisse. Sed quid Tulliola mea fiet? iam id vos videte: mihi deest consilium. Sed certe, quoquo modo se res habebit, illius misellae et matrimonio et famae serviendum est. Quid? Cicero meus quid aget? iste vero sit in sinu semper et complexu meo. Non queo plura iam scribere: impedit maeror. Tu quid egeris, nescio: utrum aliquid teneas an, quod metuo, plane sis spoliata.
 
 Morfosintassi
1. Rogem (r.1): come hai reso questo congiuntivo in italiano? Individua gli altri congiuntivi indipendenti presenti nel passo e stabilisci il loro valore, sulla base della tua traduzione.
2. Ut venias (r.1): come hai reso questa subordinata? Trova l'altro ut presente nel testo e riconoscine il valore
3. fac venias (r. 3): come hai tradotto questa espressione? Che valore ha?
4. videbor... perisse (r. 4): di quale costruzione di videor si tratta? In quale altro modo può essere costruito questo verbo?
5. Tu... spoliata: individua le interrogative indirette presenti e spiega in che cosa si differenzia la loro struttura

Lessico e retorica:
6. se res habet: cerca attentamente sul dizionario il significato di questa espressione e traducila adeguatamente.
7. Riconosci le allitterazioni presenti nel passo.
8. in sinu... et complexu meo: prova a rendere questa espressione italiana con un'endiadi.

giovedì 14 gennaio 2010

Testi manzoniani

In morte di Carlo Imbonati (1805)
vv. 207-215

Sentir, riprese, e meditar: di poco
            Esser contento: da la meta mai
            Non torcer gli occhi: conservar la mano
210      Pura e la mente: de le umane cose
            Tanto sperimentar, quanto ti basti
            Per non curarle: non ti far mai servo:
            Non far tregua coi vili: il santo Vero
            Mai non tradir: né proferir mai verbo,
215      Che plauda al vizio, o la virtù derida.




Prefazione al Conte di Carmagnola

(...) Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio, o un enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i greci che in ogni dramma il Coro... fosse prima di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi il difensore della causa dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava l’impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un’espressione lirica e armonica, e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione.() Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori. Se l’essere questi indipendenti dall’azione e non applicati a personaggi li priva d’una gran parte dell’effetto che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili d’uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d’essere senza inconvenienti: non essendo legati con l’orditura dell’azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici. Senza indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che siano destinati alla lettura: e prego il lettore d’esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perché il progetto mi sembra potere essere atto a dare all’arte più importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d’influenza morale.
 

Adelchi
Atto III, scena 1, vv. 43-45; 66-102: Adelchi eroe romantico




(Adelchi)

Anfrido,
Qual guerra! e qual nemico! Ancor ruine
Sopra ruine ammucchierem: l'antica
Nostr'arte è questa: ne' palagi il foco
Porremo e ne' tuguri; uccisi i primi,
I signori del suolo, e quanti a caso
Nell'asce nostre ad inciampar verranno,
Fia servo il resto, e tra di noi diviso;
E ai più sleali e più temuti, il meglio
Toccherà della preda. - Oh! mi parea,
Pur mi parea che ad altro io fossi nato,
Che ad esser capo di ladron; che il cielo
Su questa terra altro da far mi desse
Che, senza rischio e senza onor, guastarla.
- O mio diletto! O de' miei giorni primi,
De' giochi miei, dell'armi poi, de' rischi
Solo compagno e de' piacer; fratello
Della mia scelta, innanzi a te soltanto
Tutto vola sui labbri il mio pensiero.
Il mio cor m'ange, Anfrido: ei mi comanda
Alte e nobili cose; e la fortuna
Mi condanna ad inique; e strascinato
Vo per la via ch'io non mi scelsi, oscura,
Senza scopo; e il mio cor s'inaridisce,
Come il germe caduto in rio terreno,
E balzato dal vento.


(Anfrido) 
                                   Alto infelice!
Reale amico! Il tuo fedel t'ammira,
E ti compiange. Toglierti la tua
Splendida cura non poss'io, ma posso
Teco sentirla almeno. Al cor d'Adelchi
Dir che d'omaggi, di potenza e d'oro
Sia contento, il poss'io? dargli la pace
De' vili, il posso? e lo vorrei, potendo?
- Soffri e sii grande: il tuo destino è questo,
Finor: soffri, ma spera: il tuo gran corso
Comincia appena; e chi sa dir, quai tempi,
Quali opre il cielo ti prepara? Il cielo
Che re ti fece, ed un tal cor ti diede.


Atto III, coro; vv. 1-12, 61-66: La storia e il popolo




Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.




Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù:

Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un tempo che fu.


(...)


Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.




Atto IV, coro; vv. 85-120: Il delirio di Ermengarda e la Provvida Sventura


Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,


Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.


Te, dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,


Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.


Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com'era allor che improvida
D'un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così


Atto V, scena 8; vv.338-364: La morte di Adelchi e il pessimismo cristiano

Cessa i lamenti,
Cessa o padre, per Dio! Non era questo
Il tempo di morir? Ma tu, che preso
Vivrai, vissuto nella reggia, ascolta.
Gran segreto è la vita, e nol comprende
Che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno:
Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
Ora tu stesso appresserai, giocondi
Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
Gli anni in cui re non sarai stato, in cui
Né una lagrima pur notata in cielo
Fia contro te, né il nome tuo saravvi
Con l'imprecar de' tribolati asceso.
Godi che re non sei; godi che chiusa
All'oprar t'è ogni via: loco a gentile,
Ad innocente opra non v'è: non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto: la man degli avi insanguinata
Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
Coltivata col sangue; e omai la terra
Altra messe non dà. Reggere iniqui
Dolce non è; tu l'hai provato: e fosse;
Non dee finir così? Questo felice,
Cui la mia morte fa più fermo il soglio,
Cui tutto arride, tutto plaude e serve,
Questo è un uom che morrà.




Marzo 1821
vv. 29-32

Una gente che libera tutta,
30        O fia serva tra l'Alpe ed il mare;
            Una d'arme, di lingua, d'altare,
            Di memorie, di sangue e di cor.


Il cinque maggio
vv. 1-8; 49-54; 85-108


                                   Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore 
orba di tanto spiro, 
così percossa, attonita
                                   la terra al nunzio sta,
                                   muta pensando all'ultima
                                   ora dell'uom fatale;
                                                (...)

                  
Ei si nomò: due secoli, 
l'un contro l'altro armato,
                                   sommessi a lui si volsero,
                                   come aspettando il fato;
                                   ei fe' silenzio, ed arbitro
                                   s'assise in mezzo a lor.                                                                                  
                                                (...)
         

                                   Ahi! forse a tanto strazio
                                   cadde lo spirto anelo,
                                   e disperò; ma valida
                                   venne una man dal cielo,
                                   e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
                                                
                                   e l'avvïò, pei floridi
                                   sentier della speranza,
                                   ai campi eterni, al premio
                                   che i desideri avanza, 
                                   dov'è silenzio e tenebre
                                   la gloria che passò.
                                                
                                   Bella Immortal! Benefica
                                   Fede ai trïonfi avvezza!
                                   Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
                                   al disonor del Gòlgota
                                   giammai non si chinò.
                                              
                                   Tu dalle stanche ceneri 
                                   sperdi ogni ria parola
il Dio che atterra e suscita,
                                   che affanna e che consola,
                                   sulla deserta coltrice
                                   accanto a lui posò.

La Pentecoste
vv. 73-80; 113-144



            Nova franchigia annunziano
            I cieli, e genti nove;
75        Nove conquiste, e gloria
            Vinta in più belle prove;
            Nova, ai terrori immobile
            E alle lusinghe infide,
            Pace, che il mondo irride,
80        Ma che rapir non può.
                         (...)



            Noi T'imploriam! Ne' languidi
            Pensier dell'infelice
115      Scendi piacevol alito,
            Aura consolatrice:
            Scendi bufera ai tumidi
            Pensier del violento;
            Vi spira uno sgomento
120      Che insegni la pietà.
            
            Per Te sollevi il povero
            Al ciel, ch'è suo, le ciglia;
            Volga i lamenti in giubilo,
            Pensando a Cui somiglia;
125      Cui fu donato in copia,
            Doni con volto amico,
            Con quel tacer pudico,
            Che accetto il don ti fa.

            Spira de' nostri bamboli
130      Nell'ineffabil riso;
            Spargi la casta porpora
            Alle donzelle in viso;
            Manda alle ascose vergini
            Le pure gioie ascose;
135      Consacra delle spose
            Il verecondo amor.

            Tempra de' baldi giovani
            Il confidente ingegno;
            Reggi il viril proposito
140      Ad infallibil segno;
            Adorna le canizie
            Di liete voglie sante;
            Brilla nel guardo errante
            Di chi sperando muor.