Come si parlava a Roma? La lingua d’uso nelle commedie di Plauto
Con l’espressione «lingua d’uso» si intende la lingua parlata (dal romano colto medio) le cui testimonianze letterarie, in latino, sono da rintracciarsi nella Commedia di Plauto e Terenzio, ma anche in Catullo e nello stile epistolare. Caratteristica di fondo della lingua d’uso è la centralità del dialogo, e, quindi, lo sforzo costante di mantenere desta l’attenzione dell’interlocutore, chiamandolo spesso in causa, coinvolgendolo in prima persona nel discorso. In virtù di questa sua natura dialogica, la lingua d’uso mette in atto una serie articolata di quelle che si potrebbero definire «strategie di comunicazione». Frequenti sono, ad esempio, i cosiddetti «stilemi affettivi», quei tratti di stile, o movenze del discorso) volti a catturare l’interesse emotivo dell’interlocutore, a coinvolgerlo in prima persona in quanto si sta dicendo. Ripetizioni, ridondanze, interiezioni, diminutivi affettivi (ma anche, di converso, imprecazioni) sono tutti modi per far entrare chi ascolta in quanto sta dicendo chi parla e, insieme, per conferire incisività al messaggio che si vuole veicolare all’interlocutore. Allo stesso scopo si riconduce un’altra caratteristica peculiare della lingua d’uso, la sua economicità; se infatti, da un lato, abbondano le ripetizioni e le ridondanze affettive, intese a sottolineare quanto viene detto e a imprimerlo nella mente dell’interlocutore, dall’altro lato le strutture sintattiche, ma anche il lessico, appaiono semplificate al massimo, quasi scarnificate: il soggetto è spesso sottinteso, e così le voci del verbo “essere”, la paratassi (cioè la giustapposizione delle proposizioni, che si affiancano l’una all’altra senza sottostare ad alcuna gerarchia, ad alcun rapporto di subordinazione e sovra ordinazione) prevale nettamente sull’ipotassi (la subordinazione), mentre, assai spesso, verbi dal significato estremamente generico (come facio, ad esempio) vengono impiegati in luogo di verbi più specifici e propri.
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