giovedì 14 gennaio 2010

Testi manzoniani

In morte di Carlo Imbonati (1805)
vv. 207-215

Sentir, riprese, e meditar: di poco
            Esser contento: da la meta mai
            Non torcer gli occhi: conservar la mano
210      Pura e la mente: de le umane cose
            Tanto sperimentar, quanto ti basti
            Per non curarle: non ti far mai servo:
            Non far tregua coi vili: il santo Vero
            Mai non tradir: né proferir mai verbo,
215      Che plauda al vizio, o la virtù derida.




Prefazione al Conte di Carmagnola

(...) Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio, o un enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i greci che in ogni dramma il Coro... fosse prima di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi il difensore della causa dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava l’impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un’espressione lirica e armonica, e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione.() Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori. Se l’essere questi indipendenti dall’azione e non applicati a personaggi li priva d’una gran parte dell’effetto che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili d’uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d’essere senza inconvenienti: non essendo legati con l’orditura dell’azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici. Senza indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che siano destinati alla lettura: e prego il lettore d’esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perché il progetto mi sembra potere essere atto a dare all’arte più importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d’influenza morale.
 

Adelchi
Atto III, scena 1, vv. 43-45; 66-102: Adelchi eroe romantico




(Adelchi)

Anfrido,
Qual guerra! e qual nemico! Ancor ruine
Sopra ruine ammucchierem: l'antica
Nostr'arte è questa: ne' palagi il foco
Porremo e ne' tuguri; uccisi i primi,
I signori del suolo, e quanti a caso
Nell'asce nostre ad inciampar verranno,
Fia servo il resto, e tra di noi diviso;
E ai più sleali e più temuti, il meglio
Toccherà della preda. - Oh! mi parea,
Pur mi parea che ad altro io fossi nato,
Che ad esser capo di ladron; che il cielo
Su questa terra altro da far mi desse
Che, senza rischio e senza onor, guastarla.
- O mio diletto! O de' miei giorni primi,
De' giochi miei, dell'armi poi, de' rischi
Solo compagno e de' piacer; fratello
Della mia scelta, innanzi a te soltanto
Tutto vola sui labbri il mio pensiero.
Il mio cor m'ange, Anfrido: ei mi comanda
Alte e nobili cose; e la fortuna
Mi condanna ad inique; e strascinato
Vo per la via ch'io non mi scelsi, oscura,
Senza scopo; e il mio cor s'inaridisce,
Come il germe caduto in rio terreno,
E balzato dal vento.


(Anfrido) 
                                   Alto infelice!
Reale amico! Il tuo fedel t'ammira,
E ti compiange. Toglierti la tua
Splendida cura non poss'io, ma posso
Teco sentirla almeno. Al cor d'Adelchi
Dir che d'omaggi, di potenza e d'oro
Sia contento, il poss'io? dargli la pace
De' vili, il posso? e lo vorrei, potendo?
- Soffri e sii grande: il tuo destino è questo,
Finor: soffri, ma spera: il tuo gran corso
Comincia appena; e chi sa dir, quai tempi,
Quali opre il cielo ti prepara? Il cielo
Che re ti fece, ed un tal cor ti diede.


Atto III, coro; vv. 1-12, 61-66: La storia e il popolo




Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,
Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.




Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù:

Ne' guardi, ne' volti, confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d'un tempo che fu.


(...)


Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.




Atto IV, coro; vv. 85-120: Il delirio di Ermengarda e la Provvida Sventura


Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,


Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.


Te, dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,


Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.


Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com'era allor che improvida
D'un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così


Atto V, scena 8; vv.338-364: La morte di Adelchi e il pessimismo cristiano

Cessa i lamenti,
Cessa o padre, per Dio! Non era questo
Il tempo di morir? Ma tu, che preso
Vivrai, vissuto nella reggia, ascolta.
Gran segreto è la vita, e nol comprende
Che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno:
Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
Ora tu stesso appresserai, giocondi
Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
Gli anni in cui re non sarai stato, in cui
Né una lagrima pur notata in cielo
Fia contro te, né il nome tuo saravvi
Con l'imprecar de' tribolati asceso.
Godi che re non sei; godi che chiusa
All'oprar t'è ogni via: loco a gentile,
Ad innocente opra non v'è: non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto: la man degli avi insanguinata
Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
Coltivata col sangue; e omai la terra
Altra messe non dà. Reggere iniqui
Dolce non è; tu l'hai provato: e fosse;
Non dee finir così? Questo felice,
Cui la mia morte fa più fermo il soglio,
Cui tutto arride, tutto plaude e serve,
Questo è un uom che morrà.




Marzo 1821
vv. 29-32

Una gente che libera tutta,
30        O fia serva tra l'Alpe ed il mare;
            Una d'arme, di lingua, d'altare,
            Di memorie, di sangue e di cor.


Il cinque maggio
vv. 1-8; 49-54; 85-108


                                   Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore 
orba di tanto spiro, 
così percossa, attonita
                                   la terra al nunzio sta,
                                   muta pensando all'ultima
                                   ora dell'uom fatale;
                                                (...)

                  
Ei si nomò: due secoli, 
l'un contro l'altro armato,
                                   sommessi a lui si volsero,
                                   come aspettando il fato;
                                   ei fe' silenzio, ed arbitro
                                   s'assise in mezzo a lor.                                                                                  
                                                (...)
         

                                   Ahi! forse a tanto strazio
                                   cadde lo spirto anelo,
                                   e disperò; ma valida
                                   venne una man dal cielo,
                                   e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
                                                
                                   e l'avvïò, pei floridi
                                   sentier della speranza,
                                   ai campi eterni, al premio
                                   che i desideri avanza, 
                                   dov'è silenzio e tenebre
                                   la gloria che passò.
                                                
                                   Bella Immortal! Benefica
                                   Fede ai trïonfi avvezza!
                                   Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
                                   al disonor del Gòlgota
                                   giammai non si chinò.
                                              
                                   Tu dalle stanche ceneri 
                                   sperdi ogni ria parola
il Dio che atterra e suscita,
                                   che affanna e che consola,
                                   sulla deserta coltrice
                                   accanto a lui posò.

La Pentecoste
vv. 73-80; 113-144



            Nova franchigia annunziano
            I cieli, e genti nove;
75        Nove conquiste, e gloria
            Vinta in più belle prove;
            Nova, ai terrori immobile
            E alle lusinghe infide,
            Pace, che il mondo irride,
80        Ma che rapir non può.
                         (...)



            Noi T'imploriam! Ne' languidi
            Pensier dell'infelice
115      Scendi piacevol alito,
            Aura consolatrice:
            Scendi bufera ai tumidi
            Pensier del violento;
            Vi spira uno sgomento
120      Che insegni la pietà.
            
            Per Te sollevi il povero
            Al ciel, ch'è suo, le ciglia;
            Volga i lamenti in giubilo,
            Pensando a Cui somiglia;
125      Cui fu donato in copia,
            Doni con volto amico,
            Con quel tacer pudico,
            Che accetto il don ti fa.

            Spira de' nostri bamboli
130      Nell'ineffabil riso;
            Spargi la casta porpora
            Alle donzelle in viso;
            Manda alle ascose vergini
            Le pure gioie ascose;
135      Consacra delle spose
            Il verecondo amor.

            Tempra de' baldi giovani
            Il confidente ingegno;
            Reggi il viril proposito
140      Ad infallibil segno;
            Adorna le canizie
            Di liete voglie sante;
            Brilla nel guardo errante
            Di chi sperando muor.

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