lunedì 30 novembre 2009

Carta Storica: Roma dopo le conquiste di Traiano (117 d.C. -massima estensione dell'Impero)


Carta Storica: Roma durante il principato di Augusto


Carta Storica: Roma alla morte di Cesare (44 a.C.)


Carta Storica: Roma alla metà del II sec. a.C.


Il sorriso d Leopardi (lettura obbligatoria)

Il sorriso di Leopardi


Repubblica — 18 ottobre 2005 pagina 49 sezione: CULTURA

Nel giugno 1821, imprigionato a Recanati dall' avarizia dei genitori, Leopardi scriveva a Pietro Brighenti: «Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l' intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m' avvezzo a ridere, e ci riesco». Ecco: l' immagine consolidata del poeta dolorante e lamentoso, intento solo a contemplare la negatività irredimibile della condizione umana e della vita (Leopardi era ancora vivo quando l' umore un po' livido di Niccolò Tommaseo lo definiva «elegantemente disperato, prolissamente dolente, e dottamente annoiato di questa misera vita»), non ha mai tenuto conto di quel «tuttavia», di quella capacità indefessa di «ridere» che lui stesso con un certo orgoglio si riconosceva. «Già del fato mortale a me bastante/ e conforto e vendetta è che su l' erba/ qui neghittoso immobile giacendo,/ il mar la terra e il ciel miro e sorrido», dichiara nella splendida chiusa di Aspasia. E una decina d' anni prima, in Alla sua donna, proprio sul ridere (della natura, questa volta) aveva modulato un autentico squillo di gioia: «O ne' campi ove splenda/ più vago il giorno e di natura il riso». Per tutta la sua breve vita, Leopardi non ha fatto altro che rincorrere una qualche forma di legittimazione di quel sorriso che gli urgeva dentro, e che avrebbe avuto bisogno di condizioni ben diverse per manifestarsi pienamente. A Recanati si annoiava, non c' è dubbio; ma non si trattava di un patologico e mortifero taedium vitae: lui avrebbe voluto conoscere gente, frequentare assiduamente i salotti, intellettuali e non, di Firenze o Bologna o Milano, fare vita mondana, amare donne; e invece era confitto dalle ristrettezze economiche e dall' intransigenza dei suoi nel palazzotto avito del «natio borgo selvaggio», quasi costretto, per passare in qualche modo il tempo, alle «sudate carte,/ ove il tempo mio primo/ e di me si spendea la miglior parte». Si annoiava, ma ne aveva ben donde. E sognava; ma non solo «interminati/ spazi (...) e sovrumani/ silenzi, e profondissima quiete», bensì anche la gloria, l' amore, il divertimento, la passione, il sesso. Nel 1822, finalmente uscito per la prima volta da Recanati e approdato a Roma, comunicherà dopo pochi giorni al fratello Carlo la sua cocente delusione: una delusione che riguardava in parti uguali la qualità degli ambienti culturali della città (l' abate Francesco Cancellieri, convinto estimatore fin dal 1814 delle abilità filologiche di quello strano enfant prodige di periferia, viene amabilmente definito «un coglione») e i costumi delle donne romane, immaginati dal poeta molto più facili di quanto fossero in realtà («non la danno», rivela piuttosto arrabbiato a Carlo). E già, le donne, croce e delizia di quel disgraziatissimo genio. Aveva innamoramenti tanto furibondi, esclusivi, affannosi quanto infelici, insoddisfatti, più o meno gentilmente declinati dalla prescelta di turno. Ecco cosa scrive da Bologna il 30 maggio 1826 al solito fratello: «Sono entrato con una donna (fiorentina di nascita) maritata in una delle principali famiglie di qui, in una relazione, che forma ora una gran parte della mia vita. Non è giovane, ma è di una grazia e di uno spirito che (credilo a me, che finora l' avevo creduto impossibile) supplisce alla gioventù, e crea un' illusione maravigliosa. Nei primi giorni che la conobbi, vissi in una specie di delirio e di febbre. Non abbiamo mai parlato d' amore se non per ischerzo, ma viviamo insieme di un' amicizia tenera e sensibile, con un interesse scambievole, e un abbandono, che è come un amore senza inquietudine». La donna è la contessa Teresa Carniani Malvezzi, che alla data della lettera aveva quarantuno anni, contro i ventotto del poeta, e che doveva essersi ben presto resa conto dei pericoli che quella platonica relazione comportava, se nell' ottobre dello stesso anno Leopardi era già costretto a implorarla per lettera: «Contessa mia. L' ultima volta che ebbi il piacere di vedervi, voi mi diceste così chiaramente che la mia conversazione da solo a sola vi annoiava, che non mi lasciaste luogo a nessun pretesto per ardire di continuarvi la frequenza delle mie visite (...) Ora vorrei dopo tanto tempo venire a salutarvi, ma non ardisco farlo senza vostra licenza». Finché poi, nel maggio 1827, letteralmente esplode con Antonio Papadopoli: «Come mai ti può capire in mente che io continui d' andare da quella puttana della Malvezzi? Voglio che mi caschi il naso, se da che ho saputo le ciarle che ha fatto di me, ci sono tornato, o sono per tornarci mai; e se non dico di lei tutto il male che posso. L' altro giorno, incontrandola, voltai la faccia al muro per non vederla». La promessa d' amore e l' immancabile disinganno: è questo il ritmo segreto che scandisce gran parte dell' esistenza intima di Leopardi, e che tocca il suo acme nella tormentata e pur sempre platonica relazione con Fanny Targioni Tozzetti, quella donna «bellissima e gentilissima (anzi l' amabilità e la bellezza stessa)» che darà un senso ai suoi anni fiorentini, e che otterrà facilmente un ruolo da protagonista nei canti scritti fra il 1831 e il 1833. E degli inizi del 1833 l' accorata e dignitosissima lettera all' «amicissimo» Antonio Ranieri, il bel napoletano che faceva strage di cuori a Firenze: «La Fanny è più che mai tua, e ti saluta sempre (...) Ella ha preso a farmi di gran carezze, perché io la serva presso di te: al che sum paratus». E nello stesso anno dichiara in versi la sua resa: «Or poserai per sempre,/ stanco mio cor. Perì l' inganno estremo,/ ch' eterno io mi credei. Perì. Ben sento,/ in noi di cari inganni,/ non che la speme, il desiderio è spento». Anche l' unica forma di infinità che Leopardi fosse riuscito a concepire, quella del desiderio, era venuta meno. Eppure ecco nel 1836 La ginestra, impropriamente ritenuto una specie di testamento spirituale, e invece fulminante apertura sul sociale e sull' oggi, inaugurazione di un nuovo «tempo» di poesia strozzato sul nascere dalla morte: una morte che, per quanto invocata, continuava umanissimamente a ripugnare alle profondità del suo essere. Scriveva appunto al padre da Torre del Greco nell' ottobre di quello stesso 1836, otto mesi prima di morire: «Ella stia riposatissima sul conto mio, perch' io uso tali cautele in qualunque genere, che, secondo ogni discorso umano, prima di me dovranno morire tutti gli altri». Altro che testamento. Ma allora chiediamoci: può ragionevolmente essere considerato un irriducibile pessimista (storico o cosmico che sia), ritenuto un nichilista corteggiatore della morte, questo gigante della letteratura e del pensiero che a Napoli chiamavano 'o ranavuottolo? Quest' uomo alto meno di un metro e mezzo, storpiato da una gobba anteriore e da una posteriore, con gli occhi sempre cisposi per una perenne oftalmia e con vari gravi problemi respiratori e cardiaci, che tuttavia continuava a inseguire i suoi sogni d' amore, di felicità, di piacere? Mai uno spregiatore della vita ne è stato più innamorato, mai un coraggioso e lucido analista della negatività della condizione umana è stato più coinvolto nei sentimenti, nelle passioni, nelle illusioni e delusioni che la identificano. Bene fa Giorgio Ficara, nell' introduzione all' edizione di Repubblica, a insistere, per i Canti, sul rapporto fra il poeta e la natura: un rapporto, direi, in definitiva adorante, che si rivela ovunque, in ogni abbandono lirico, in ogni incipit descrittivo, in ogni pur discreta fantasticheria. E attenzione: la presenza quasi ossessiva dei deittici (questo, quello, qui, là, quinci, quindi.) rivela una necessità di contestualizzazione troppo esibita e ribadita per non essere profondamente reale. Se Leopardi parla della natura, tiene sempre a sottolineare che non sta parlando di qualcosa di astratto, di appartenente al dominio del pensiero, bensì di qualcosa che vede e sente, che si offre ai suoi occhi ammalati e che lui avidamente registra. E una fame inesausta di godimento e di pienezza vitale, una strenua rivendicazione del diritto alla vita, la molla più autentica della sua scrittura: una molla che confligge clamorosamente con «l' infinita vanità del tutto», con i vari «è funesto a chi nasce il dì natale», «a me la vita è male», «beata/ se te d' ogni dolor morte risana»; e che tuttavia rimane la chiave più autentica della grandezza assoluta di una poesia che spera in quanto dispera, e dispera in quanto spera: quella grandezza che ognuno di noi, al di là di antologie scolastiche e manuali, non può, se sia minimamente consapevole di sé, non riconoscerle. - STEFANO GIOVANARDI



venerdì 27 novembre 2009

Schema riassuntivo modulo 3: "Il mestiere dell'intellettuale nel Rinascimento

Unità didattica 1:
Il nuovo principe rinascimentale e il ruolo dell'intellettuale cortigiano

Chi? 
  • Baldassar Castiglione, Il Cortegiano (pp. 157-161)
  • Giovanni della Casa, Il Galateo (pp. 162-165)
Dove?
  • Le corti di Mantova e Urbino
Cos'hanno detto?
  • Castiglione propone un modello prettae
  • Con Della Casa, invece, assistiamo al declino della funzione pedagogica dell'intellettuale sul principe

Quale genere letterario hanno scelto?
Il genere letterario prescelto è il trattato sul comportamento. In particolare questo genere assume la forma del dialogo. Chiaro è il riferimento ai dialoghi platonici (Platone, tra l'altro è il filosofo più studiato in questo periodo). Il dialogo, inoltre, permette di confrontare punti di vista diversi, mostra come si supportano le opinioni, come si possa confutare quelle altrui: in sostanza mima la costruzione della conoscenza e della verità, in un'ottica che potremmo definire maieutica. Non va inoltre dimenticato che, attraverso il dialogo, il lettore diventa partecipe della conversazione, come se essa si svolgesse in sua presenza.
cfr. pp. 150-152
Quali concetti sono fondamentali?
Sprezzatura: cfr. T pag. 158-161



Unità didattica 1:
L'intellettuale di fronte al potere e alla storia

Chi?

  • Niccolò Machiavelli
    • Lettera a Francesco Vettori  (pp. 358-364). In essa ci viene fornito un ritratto genuino dell'umanista Machiavelli
    • Il Principe -1532,  (pp.366-377)
    • Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (pp. 366-377)
    • Istorie fiorentine (pp. 415-416)
  • Francesco Giucciardini (pp.466-68)
    • I Ricordi (pp. 469-72)
    • Storie d'Italia (490-91)
Dove?
  • Firenze
Cos'hanno detto?
    Machiavelli si interessa in particola modo alla situazione politica italiana. Le sue opere politiche cercano di definire la figura del buon principe e del buon governo. Il suo modello di intellettuale si ispira fortemente all'intellettuale umanista, autonomo e dedito soprattutto alle problematiche civili. Fervente repubblicano non mancò tuttavia di vedere la realtà, "verità effettuale" l'avrebbe chiamata lui, della situazione politica italiana. Nasce così il Principe, trattato realista e a tratti spregiudicato sulla figura del buon monarca. Con quest'opera Machiavelli definisce gli ambiti d'azione della politica, distinguendoli da quelli della morale. La sua analisi si basa sulla "verità effettuale" e sull'"esperienza delle cose moderne" e la "continua lezione delle antique" ed ha come presupposto filosofico l'immutabilità della natura umana (naturalismo).
    Machiavelli considera la storia magistra vitae; essa fornisce esempi e modelli che l'uomo può imitare. In sostanza, la conoscenza della storia passata ci fornisce le chivi di lettura e le regole di comportamento per l'azione politica.
    In questo contesto ideologico si inserisce anche la Fortuna, cioè la cieca irrazionalità che limita e sconvolge l'azione umana; secondo il Cancelliere fiorentino, sostenitore della visione eroica dell'uomo, è possibile opporsi alla fortuna sfruttando la virtù (la virtus latina), la razionalità, l'energia individuale.

    Guicciardini, ancor più pessimista di Machiavelli per quanto riguarda la concezione della natura umana, tuttavia mostra, rispetto al suo concittadino, un maggiore realismo nell'osservare la realtà italiana contemporanea.
    La sua visione della storia differisce da quella di Machiavelli; Guicciardini, infatti, vede nella storia un processo lineare, e non circolare. Ciò significa che la storia non si ripete, che ogni evento ha la sua peculiarità (particulare).
    Questa concezione implica, quindi, che non sia possibile dedurre delle "leggi universali" che possano indicare la via giusta per raggiungere uno scopo, deducibili dall'"esperienza delle cose moderne" e dalla "costante lezione delle antique"; anzi, al contrario, l'autore vede gli eventi interamente dominati dalla fortuna. Ciascuna situazione, di conseguenza, è unica,  irripetibile, caotica. L'uomo è in grado di distinguere un caso da un altro grazie all'esperienza e alla discrezione. Da questa visione disordinata della storia nasce anche la scelta del genere dei Ricordi: l'aforisma permette di condensare, in una forma breve, incisiva e densa di significati, un frammento di realtà, della quale non è possibile comprendere il disegno generale, ma solo aspetti particulari.
    Con lui, inoltre, nasce un moderno metodo storico (così come con Machiavelli è nata la scienza politica)

Quale genere letterario hanno scelto?
Il Principe: si tratta di un trattato politico; in generale possiamo ascriverlo alla trattatistica sul comportamento, da tenere ben distinto dai vari specula principis elaborati fino a quel momento, benchè in esso sia assente la formula dialogica.

Con la Storia d'Italia Guicciardini inaugura la moderna storiografia.
Quali concetti sono fondamentali?
Machiavelli
Lo stile dilemmatico: cfr. pp. 377 e T.2 p. 380-81. Sullo stile cfr. anche T.1, p. 378-79); stile persuasivo: T.9 pp. 399-403; stile aulico-latineggiante: cfr. T. 10 p. 407-409
Verità effettuale: cfr. T.1 pp. 378-79 (esperienza della realtà concreta, come già nella Lettera a Vettori) e soprattutto T.5 pp. 386-88)
Virtù e fortuna: cfr. pp. 394-398 (ricordati le due metafore, del fiume e della donna, per spiegare cosa sia la Fortuna); cfr. anche T.6 pp.389-391 (metafore di ambito animale per spiegare quale deve essere la natura del principe)
Concezione della storia: considerando il fatto che Machiavelli crede nell'immutabilità della natura umana (nonchè della sua malvagità, cfr. pp.389-391), è evidente come per lui la storia si debba ripetere in maniera ciclica, tanto che sarebbe possibile applicare il principio di imitazione anche alla politica (che altro non è che storia contemporanea) e non solo alle arti. Cfr. T10 pp. 407-9

Giucciardini
Natura umana: T4-5-6 pp. 482-89 (l'uomo nei suoi particulari aspetti)
Concezione della storia:  T1473-475; T.7 pp. 491-96

Discrezione: T1 pp. 473-75
Fortuna: T2 pp. 476-77

 

 
Unità didattica 3:

L'intellettuale cortigiano rivendica la sua autonomia


Chi?

  • Ludovico Ariosto (pp. 244-247)
    • Satire (pp.250-51)
    • Orlando Furioso (pp.255-271)
Dove?
  • Corte di Ferrara
Cosa dice?
    Ariosto rivendica l'autonomia dell'intellettuale come valore supremo e dimostra, in questo suo atteggiamento, una concezione molto moderna dell'indipendenza del mondo della cultura dagli imbrogli del potere.
    Troviamo inoltre, nella Satira, l'ennesimo esempio di vita ideale proposta dal Rinascimento, con l'elogio dell'otium.
 
Quali generi?
    Ariosto recupera la satira latina, in particolare il modello oraziano e la sua struttura dialogica. Del ruolo del dialogo nella letteratura rinascimentale abbiamo già detto; qui notiamo come il recupero di un genere strettamente latino si ricollega a quel culto per la cultura classica che è tipica del Rinascimeto.
    L'opera maggiore dell'Ariosto, l'Orlando Furioso, è un testo epico, con caratteristiche peculiari che vedremo nel modulo dedicato a questo genere letterario.
 
In quali testi?
Satira, III: cfr. T1 pp. 251-254
Orlando Furioso: testo in fotocopia

domenica 22 novembre 2009

Sallustio: il ruolo dell'intellettuale

Versioni Sallustio

Le seguenti versioni, da integrare con alcuni brani presenti nel versionario, ci offrono una chiave di lettura delle monografie storiche di Sallustio.


Introduzione ai brani
    Entrambe queste opere si aprono con alcuni capitolo proemiali, accomunati da una notevole continuità di pensiero e argomenti. Si tratta di sezioni a sé stanti, senza legami evidenti con gli argomenti trattati nel resto delle opere, come già notava Quintiliano (3,8,9), il quale, comunque, considerava la scollatura giustificata dal genere letterario; simili esordi, del resto, non erano estranei alla tradizione storiografica ellenistica. Questi capitoli non sono dunque destinati ad introdurre la narrazione dei fatti studiati ma, piuttosto, a fornire al lettore le principali coordinate della mentalità dell’autore e le motivazioni e modalità della sua scrittura storiografica.


    Per lo spirito pratico dei romani, l’attività di chi “scrive storia” è decisamente meno importante e prestigiosa rispetto a quella di chi “fa storia”, di chi si impegna attivamente nella vita dello stato attraverso lo svolgimento di una carriera politica e militare; lo stesso Sallustio approda alla storiografia come ad una sorta di ripiego e solo dopo il forzato abbandono della politica attiva, dovuto presumibilmente agli scandali in cui era stato coinvolto.


    Per questo lo storico, all’inizio delle sue opere, sente l’esigenza di legittimare e giustificare questa scelta. Egli imposta una contrapposizione fra negotium e otium, fra l’impegno politico e l’otium inteso come vita dedita alle attività dell’ingenium (in particolare, la ricerca storica), rivendicando pienamente la “pari dignità” di quest’ultima e l’utilità per lo stato di una ricerca volta ad analizzare le cause storiche della situazione presente. È proprio con la riflessione di Sallustio, insieme con quella contemporanea -e assai più rilevante- di Cicerone, che si fa strada la concezione di un bonum o utile otium, che tanta importanza avrà nell’età imperiale, quando gli spazi per un’azione politica diretta si faranno molto più stretti.







Bellum Catilinae 2 (per mercoledì)
Igitur initio reges -nam in terris nomen imperi id primum fuit- diversi pars ingenium, alii corpus exercebant: etiam tum vita hominum sine cupiditate agitabatur; sua cuique satis placebant. Postea vero quam in Asia Cyrus, in Graecia Lacedaemonii et Athenienses coepere urbis atque nationes subigere, libidinem dominandi causam belli habere, maximam gloriam in maximo imperio putare, tum demum periculo atque negotiis compertum est in bello plurimum ingenium posse. Quod si regum atque imperatorum animi virtus in pace ita ut in bello valeret, aequabilius atque constantius sese res humanae haberent, neque aliud alio ferri neque mutari ac misceri omnia cerneres. Nam imperium facile iis artibus retinetur, quibus initio partum est. Verum ubi pro labore desidia, pro continentia et aequitate libido atque superbia invasere, fortuna simul cum moribus immutatur. Ita imperium semper ad optimum quemque a minus bono transfertur. Quae homines arant navigant aedificant, virtuti omnia parent. Sed multi mortales, dediti ventri atque somno, indocti incultique vitam sicuti peregrinantes transigere; quibus profecto contra naturam corpus voluptati, anima oneri fuit. Eorum ego vitam mortemque iuxta aestimo, quoniam de utraque siletur. Verum enim vero is demum mihi vivere atque frui anima videtur, qui aliquo negotio intentus praeclari facinoris aut artis bonae famam quaerit.


Domande sui testi (per rispondere a queste domande considerate, oltre al brano qui sopra proposto, anche la versione n. 273 a pag. 427)

  1. Ripercorri i punti salienti dell'argomentazione svolta da Sallustio nei capitoli 1-2 del Bellum Catilinae (cioè le due versioni svolte), individuando in particolare gli snodi della discussione e le formule di transizione che servono per passare da un argomento all'altro.


  2. In questi capitoli emergono alcuni concetti importanti per l'ideologia di Sallustio, come quelli di ingenium, virtus, vis: cerca di definirli così come vengono presentati dalle parole dello storico.


  3. Qual è a tuo parere il senso della digressione storico politica svolta da Sallustio nella prima parte del cap. 2? Quali indicazioni relative all'ideale politico dell'autore emergono da essa?


  4. La patina arcaica del lessico è uno dei tratti più evidenti nell'opera di Sallustio. Indica le forme di sapore arcaico o arcaicizzante che rintracci in questi primi due capitoli del Bellum Catilinae. Quali sono i motivi alla base di questa scelta dell'autore?

Bellum Catilinae 4

Io, poi, per quanto mi riguarda, da ragazzo, come molti, fui spinto dalla passione verso l'attività politica, e là molte circostanze mi furono avverse. Infatti, in luogo del pudore, in luogo del disinteresse, in luogo della virtù, contavano sfrontatezza, corruzione, avidità. E benchè il mio animo, non abituato ad una condotta malvagia, rifiutasse questi mali, tuttavia, in mezzo a vizi così grandi, la mia fragile età veniva corrotta dall'ambizione; e nonostante ciò, benchè dissentissi dalle perverse abitudini degli altri, mi tormentava la stessa brama di onore che tormentava gli altri con la maldicenza e l'invidia.
Igitur ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi relicuam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere, neque vero agrum colendo aut venando, servilibus officiis, intentum aetatem agere; sed a quo incepto studioque me ambitio mala detinuerat, eodem regressus statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere, eo magis quod mihi a spe metu partibus rei publicae animus liber erat. Igitur de Catilinae coniuratione quam verissime potero paucis absolvam; nam id facinus in primis ego memorabile existimo sceleris atque periculi novitate. De cuius hominis moribus pauca prius explananda sunt, quam initium narrandi faciam.


Domande sui testi (per rispondere a queste domande considerate, oltre al brano qui sopra proposto, anche la versione n.275 a pag. 428, che trovate già tradotta)


  1. Nei capitoli 3-4 del proemio del Bellum Catilinae sono presenti alcuni dei tratti distintivi della prospettiva storica di Sallustio. sai rintracciarli ed esporli con l tue parole?


  2. Rifletti sulla funzionee il significato, all'interno del contesto proemiale, dello scorcio autobiografico inserito da Sallustio nei capitoli 3-4 del Bellum Cailinae. Qual è a tuo prere l'angolatura prevalente attraverso cui l'autore rilegge la sua vicenda autobiografica?


  3. Come viene definito, nel cpitolo 4, il concetto di bonum otium?


  4. Nei paragrafi conclusivi del proemio, Sallustio espone in maniera stringatama esaustiva alcune delle caratteristiche formali e stilistiche della sua opera storica. Esponi tali caratteristiche, individuando i termini e le formule utilizzate dall'autore per indicarle.


  5. Fai un'analisi stilistica dei capitoli 3-4 del Bellum Catilinae, indicando le varie figure retoriche in essi presenti.




Il proemio del Bellum Iughurtinum: scelta dell’argomento e cause della guerra


Bellum Iughurtinum 5
Bellum scripturus sum, quod populus Romanus cum Iugurtha rege Numidarum gessit, primum quia magnum et atrox variaque victoria fuit, dein quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam itum est; quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae processit, ut studiis civilibus bellum atque vastitas Italiae finem faceret. Sed prius quam huiusce modi rei initium expedio, pauca supra repetam, quo ad cognoscendum omnia illustria magis magisque in aperto sint. Bello Punico secundo, quo dux Carthaginiensium Hannibal post magnitudinem nominis Romani Italiae opes maxime attriuerat, Masinissa rex Numidarum in amicitiam receptus a P. Scipione, cui postea Africano cognomen ex virtute fuit, multa et praeclara rei militaris facinora fecerat. Ob quae victis Carthaginiensibus et capto Syphace, cuius in Africa magnum atque late imperium valuit, populus Romanus, quascumque urbis et agros manu ceperat, regi dono dedit. Igitur amicitia Masinissae bona atque honesta nobis permansit. Sed imperi vitaeque eius finis idem fuit. Dein Micipsa filius regnum solus obtinuit Mastanabale et Gulussa fratribus morbo absumptis. Is Adherbalem et Hiempsalem ex sese genuit Iugurthamque filium Mastanabalis fratris, quem Masinissa, quod ortus ex concubina erat, privatum dereliquerat, eodem cultu quo liberos suos domi habuit.


Domande sul testo
  1. Individua e definisci l'argomento centrale affrontato da Sallustio nel Bellum Iugurthinum, utilizzando quanto dice lo storico nel proemio dell'opera.
  2. Confronta questo capitolo del Bellum Iugurthinum con la propositio (cioè l'esposizione dell'argomento) nel capitolo 4 del Bellum Catilinae e individua le affinità formali e le caratteristiche comuni.
  3. Fai l'analisi del periodo dell'intero brano. Qual è la caratteristica prevalente della sintassi in queso capitolo?

sabato 21 novembre 2009

Catone e Marzia: un approfondimento sul matrimonio romano, una spiegazione delle parole dantesche

EVA CANTARELLA
Matrimonio e sessualità nella Roma repubblicana:
una storia romana di amore coniugale
(tratto da Eva Cantarella, Passato Prossimo. Donne Romane da Tacita a Sulpicia, Milano, Feltrinelli, 2006)

La storia di cui parlerò è quella di un matrimonio romano. Per la precisione, il matrimonio tra Catone il Giovane e Marzia, rimasto celebre nei secoli e ricordato da Dante come un modello di vita coniugale. A Catone, infatti, Dante fa dire, di se stesso, che «quante grazie (Marzia) volse da me, fei». Un marito che cedeva al minimo desiderio della moglie, insomma: perché mai Dante così lo rappresentasse è difficile dire. 
 La storia di Catone e Marzia fu, certamente, una storia di straordinaria devozione coniugale: ma altrettanto certamente, non dalla parte di Catone. Se questo matrimonio fu celebre nell’antichità e continua ad esserlo, è piuttosto per la arrendevolezza dimostrata da Marzia quando nel suo matrimonio –per volontà di Catone– entrò e giocò un ruolo determinante un terzo uomo, il retore Ortensio. Come racconta, tra gli altri, Appiano (De bellis civilibus Romanorum, 2, 14, 99): Catone aveva sposato Marzia, la figlia di Filippo, quando era ancora molto giovane; era molto attaccato a lei, e da lei aveva avuto dei figli. Tuttavia, la diede a Ortensio, uno dei suoi amici, che desiderava avere figli ma che era sposato a una donna sterile. Dopo che Marzia ebbe dato un figlio anche a lui, Catone la riprese di nuovo in casa, come se l’avesse prestata. 
    Negli ultimi anni ho avuto modo di discutere questa storia in molte occasioni. (...). Storia singolare, a prima vista. Ma che cessa di apparire tale, se la si considera alla luce della mentalità del tempo. Il proposito delle pagine che seguono è –appunto– quello di mostrare che, se la si analizza alla luce dei concetti di matrimonio e di sessualità coniugale dell’epoca, la vicenda non suscita eccessiva meraviglia. Agli occhi dei romani che vivevano sul finire dell’età repubblicana, il fatto che un marito cedesse la propria moglie a un amico perché questi potesse avere figli da lei non era un comportamento né eccentrico né sconveniente: quantomeno, non appariva tale agli occhi delle famiglie della élite, cui i protagonisti della nostra storia appartenevano. E forse, come vedremo, neppure agli occhi del ceto che oggi definiremmo “medio”.
    A ben vedere, infatti, cedere la moglie a un amico a fini procreativi non era una pratica eccezionale (anche se, certamente, neppure diffusissima). Non solo: salvo in casi –come, appunto, quello di cui ci occuperemo, che per motivi politici davano luogo a una certa sensazione– cedere la moglie a scopi procreativi rientrava in un’ottica civica che i romani non solo comprendevano, ma apprezzavano: tra i doveri del cittadino, infatti, stava in primo luogo quello di garantire la riproduzione del corpo cittadino.
    Per dimostrare questa ipotesi, il testo che segue sarà diviso in tre parti. La prima parte esaminerà i dettagli della vicenda, i commenti dei romani e le interpretazioni degli studiosi moderni. La seconda parte cercherà di contestualizzare la storia, analizzando la concezione romana del matrimonio e della procreazione alla luce delle norme giuridiche e delle valutazioni sociali dell’epoca. La terza parte cercherà di spiegare la storia di Catone, Marzia e Ortensio alla luce di queste norme e di queste valutazioni.
 
I dettagli della storia
La descrizione più lunga e dettagliata della storia di Catone, Marzia e Ortensio si trova in Plutarco (Cato minor, 25, 4-9) (...).
Tra i numerosi seguaci e ammiratori di Catone ce n’erano alcuni più illustri di altri e fra costoro Quinto Ortensio, uomo di ottima fama e di buon carattere. Egli desiderava essere qualcosa di più di un compagno per Catone e voleva stringere con lui un vincolo di parentela così da legare le loro famiglie e le loro casate; perciò cercò di persuaderlo a dargli in sposa la figlia Porcia, benché costei fosse già moglie di Bibulo e avesse avuto con lui due figli, quasi che volesse anch’egli seminare in quella fertile terra. Sosteneva che se pure una cosa del genere può apparire strana, dal punto di vista della natura è cosa giusta e giovevole alla collettività che una donna in pieno fiore non resti inattiva fino allo spegnimento della sua capacità generatrice, senza con ciò infastidire ed impoverire la propria casa, generando più figli di quanti sia giusto. Inoltre, se uomini di valore hanno comuni discendenti, la loro virtù si accresce e si comunica a questi e lo stesso Stato si amalgama per via
delle parentele. In ogni caso, qualora Bibulo fosse troppo attaccato alla moglie, Ortensio assicurava che l’avrebbe restituita subito non appena gli avesse dato un figlio, legandolo così, per il fatto di avere figli in comune, tanto a Catone che allo stesso Bibulo.Catone rispose che provava grande affetto per Ortensio, e che gli sarebbe piaciuto che vi fosse fra loro un vincolo di parentela, ma gli pareva fuor di luogo che gli si chiedesse in sposa la figlia già maritata ad un altro. Ortensio allora cambiò discorso e chiese apertamente in moglie la sposa di Catone, che era ancora abbastanza giovane per avere dei figli, visto che Catone aveva già la certezza di una propria discendenza. A Ortensio, dunque, non bastava essere semplicemente amico di Catone. Voleva stringere con lui rapporti di parentela e quando Catone rifiutò di concedergli in moglie sua figlia Porzia,2 dunque, non pensò neppure ad arrendersi: se Catone non voleva dargli sua figlia, perché non gli dava sua moglie? Singolarmente, ai nostri occhi, Catone non respinse la richiesta; dopo essersi consultato con Filippo, suo suocero, che si dichiarò favorevole, accolse la richiesta. Cosa pensasse Marzia della situazione non viene detto: per quanto ne sappiamo, la sua opinione non venne neppur richiesta.
    Porzia, che in seconde nozze sposò l’assassino di Cesare, Bruto, dopo la morte di questi venne celebrata come la più eroica delle vedove. Quando Bruto venne ucciso a Filippi, infatti, Porzia decise di suicidarsi, e vi riuscì, nonostante ogni sforzo dei familiari per impedirglielo. Avendo costoro nascosto tutte le possibili armi di cui ella avrebbe potuto servirsi, Porzia ricorse a un mezzo estremo, e pose fine ai suoi giorni mangiando carboni ardenti, cfr. Marziale, Epigrammi, I, 42; Valerio Massimo, Factotum et dictorum memorabilium, IV, 6, 5.118. Sappiamo solo che sposò Ortensio, gli diede due figli, e quando Ortensio morì (al momento del matrimonio aveva circa cinquant’anni), risposò Catone.
    Ovviamente, essendo Catone e Ortensio due importanti personaggi pubblici, la questione ebbe una certa risonanza. Nelle scuole di retorica ci si esercitava discutendo an Cato recte Marciam Hortensio tradiderit (se Catone si sia comportato bene nel Marcia a Ortensio) o conveniatne res talis bono vir (se un simile comportamento sia conveniente, per un uomo dabbene).3 E da Plutarco (Cato minor, 52, 5-7) sappiamo che Cesare criticò Catone: Ortensio aveva lasciato Marzia erede, al momento della morte. Per questa ragione, Cesare accusò Catone di essere avido e di trafficare con i matrimoni: perché –egli chiese– Catone lasciò a un altro sua moglie, se la voleva, e perché, se non la voleva, la riprese con sé, se non perché la donna venne usata da lui come un’esca per Ortensio, a cui egli la cedette quando era giovane per riprendersela ricca?
Ma Cesare, notoriamente, era un avversario politico di Catone. E comunque non criticò Catone per aver ceduto Marzia. Criticò le ragioni per le quali secondo lui l’aveva ripresa alla morte di Ortensio. Per finire, va detto che la sua critica non era condivisa: Plutarco, ad esempio, scrive che rinfacciare a Catone un sordido amore per il guadagno è come accusare Eracle di vigliaccheria, e che Catone si riprese Marzia perché «aveva bisogno di qualcuno che badasse alla casa e alle figlie».4 Il che sembra più che plausibile: subito dopo il nuovo
matrimonio, in effetti, come Plutarco ricorda, Catone lasciò Roma per andare a combattere con Pompeo. E Strabone, per spiegare il suo comportamento, addusse precedenti etnologici.
    Per quanto possiamo capire, insomma, nell’antichità il comportamento di Catone venne discusso e talvolta anche criticato: ma solo con riferimento alle ragioni che lo determinarono, non per il fatto in sé di aver ceduto sua moglie a un amico. Le vere perplessità, a ben vedere, vengono dai commentatori moderni. La relazione di Catone e Marzia è così lontana dalla morale sessuale odierna che chi se ne è occupato ha in genere cercato di spiegarla come una peculiarità, per non dire una vera e propria stranezza legata al carattere o alle convinzioni
personali dei suoi protagonisti.
    Una prima spiegazione in questa prospettiva venne proposta anni fa da Gordon: il comportamento di Catone e di Marzia, così come quello di Ortensio, si spiegherebbe considerando l’età e la personalità dei personaggi che, ormai adulti, avevano superato il romanticismo dell’età giovanile e concepivano il matrimonio esclusivamente come un’istituzione volta alla riproduzione dei cittadini. Spiegazione assai debole, in verità: che lo scopo del matrimonio fosse la riproduzione dei cittadini era convinzione generale dei romani, vecchi e giovani. Ma credere che lo scopo del matrimonio sia la riproduzione dei cittadini non comporta la necessità di cedere la propria moglie a un amico. Più credibile di quella ora citata (anche se a mio parere non convincente)
è l’interpretazione secondo la quale, essendo uno stoico, Catone avrebbe applicato i principi del suo credo filosofico, secondo i quali le donne, fatte per generare, dovevano essere comuni e accessibili a tutti. Ma io credo che la storia coniugale di Catone si spieghi senza bisogno di scomodare le sue convinzioni filosofiche. Essa si spiega, molto più semplicemente, alla luce delle norme giuridiche e sociali che regolavano il matrimonio e la procreazione. La storia nel suo contesto: come i romani intendevano matrimonio e procreazione Negli ultimi decenni, soprattutto negli Stati Uniti, gli studiosi di storia sociale romana hanno prospettato e sostenuto una nuova interpretazione della famiglia e del matrimonio romano. Questa non sarebbe stata –come la dottrina tradizionale la ha prevalentemente presentata– un gruppo di persone accomunate dalla subordinazione al potere autoritario di un paterfamilias, i cui esorbitanti contenuti è del tutto superfluo ricordare. Secondo l’ipotesi sostenuta con particolare impegno da Richard Saller, essa sarebbe stata invece simile alla moderna famiglia nucleare. Secondo Saller, infatti, nonostante i patresfamilias avessero sui figli poteri così estesi da non essere molto diversi, nei fatti, da quelli sugli schiavi (beninteso, salva la transitorietà della condizione dei filii familias), gli adulti sottoposti a patria potestas sarebbero stati troppo pochi per costituire un reale problema. Inoltre, i padri, sin dalle origini della storia romana, avrebbero trattato molto diversamente figli e schiavi, rispettando l’individualità e la dignità dei figli. Di conseguenza, la familia (composta da un numero limitato di persone, e ben diversa dalla grande famiglia patriarcale), sarebbe stata un gruppo legato da vincoli non di dipendenza gerarchica, ma da affetto e solidarietà. Un’ipotesi indiscutibilmente interessante, che –anche se contestata da alcuni autori– ha avuto notevole fortuna, soprattutto negli Stati Uniti, e ha fortemente influenzato gli studi successivi: come dimostra, per tutti, il libro Roman Marriage di Susan Treggiari, chedescrive il rapporto coniugale (quantomeno dal punto di vista ideologico)come una relazione personale forte e affettiva, e il matrimonioe la scelta del coniuge come decisioni molto spesso lasciate alle personeche si sposavano, anche se alieni iuris.
Ma io non credo che questa immagine della famiglia romana risponda a realtà, o quantomeno non credo risponda a una realtà generalizzata. Per capire il matrimonio romano dobbiamo decisamente sbarazzarci del nostro modo di intendere il matrimonio, la coppia e l’amore coniugale. A Roma, le norme giuridiche e sociali non consentivano neppure il formarsi, in questo campo, di concetti paragonabili ai nostri. Come è troppo noto per dovervisi soffermare, il matrimonio romano era profondamente diverso da quello moderno. Non solo quando era accompagnato dalla conventio in manum (o si identificava con questa: non è certo questa la sede per entrare nella vexata quaestio), le mogli –al di là di ogni considerazione sulla struttura del matrimonio– erano sottoposte, a meno che non fossero sui iuris, a un potere personale maschile assai forte che aveva effetti determinanti sulla loro vita coniugale: forse e soprattutto, direi, quando questo potere, in costanza di matrimonio, continuava a spettare al paterfamilias originario.
Come è quasi troppo noto per doverlo ricordare, infatti, tra i poteri spettanti al paterfamilias rientrava quello di interrompere il matrimonio dei figli. Come sorprendersene, del resto, ben sapendo che per tutto il periodo classico e fino all’inizio del III secolo d.C., il matrimonio era basato sul consenso permanente non solo degli sposi, ma se questi erano alieni iuris, anche dei loro patresfamilias? Leggiamo in un notissimo passo di Paolo che il matrimonio non può aver luogo senza il consenso di tutti coloro che sono coinvolti, ossia di coloro che si uniscono in matrimonio e di coloro al potere dei quali essi sono sottomessi (nuptias consistere non possunt nisi consentiant omnes, id est qui coeunt quorumque in protestate sunt). E i Tituli ex corpore Ulpiani confermano: il matrimonio è legittimo se entrambi acconsentono e sono giuridicamente autonomi, o anche i loro padri, qualora si trovino ad essere sottoposti alla loro potestà (Iustum matrimonium est si … utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in protestate sunt). Se il padre cambiava idea, insomma, poteva interrompere il matrimonio del figlio, o più spesso, nella prassi, della figlia (abducere filiam). E i padri continuarono a esercitare questo potere, quantomeno fino al II secolo d.C. Alcuni papiri dell’Egitto romano, infatti, provano chiaramente che in quell’epoca alcune figlie si ribellarono ai padri, che rifiutavano di vedere i loro poteri divenire tali solo sulla carta, e continuavano a pretendere di decidere del destino dei figli adulti. E alcune di queste figlie riuscirono a contrastare la volontà paterna. Nel 186 d.C., a Ossirinco, una certa Dionisia, nel chiedere al magistrato locale di impedire a suo padre di interrompere il suo matrimonio, rafforzò la sua richiesta richiamando due casi risalenti a circa trenta anni prima in cui i magistrati avevano accolto petizioni analoghe alla sua.16 Ma è superfluo dire che i precedenti, nel diritto romano, pur essendo molto importanti, non erano vincolanti. Il principio che un figlio avesse il diritto di decidere autonomamente della sua vita privata faticava ad affermarsi. Nel III secolo d.C. a favore dei padri che volevano interrompere il matrimonio dei figli, era ancora in uso l’interdictum de liberis ducendis: o, quantomeno sappiamo che alcuni padri tentavano ancora di farvi ricorso. Leggiamo infatti in Digesto 43, 30, 1, 5 (Ulpianus, 71 ad edictum): Se qualcuno vuol portar via sua figlia, che è unita a me in matrimonio, o vuole che essa sia a lui esibita, può essere concessa un’eccezione contro l’interdetto, qualora il padre voglia dissolvere un matrimonio concorde, magari anche consolidato da figli? È certa regola di diritto che i matrimoni realmente concordi non debbono essere turbati dall’esercizio della patria potestà. Ciò si deve ottenere persuadendo il padre a non esercitare aspramente il suo potere. E sappiamo anche che alcuni padri ancora nel IV secolo continuavano pervicacemente a tentare di abducere filiam. Un papiro egiziano del 312 d.C., infatti, riporta la petizione di un marito costretto a rivolgersi ai magistrati locali per riavere la moglie che gli era stata sottratta dal suocero.17 E i magistrati decisero che il caso doveva essere risolto secondo il desiderio della donna: ma siamo già nel 312 d.C. 
    Il matrimonio romano, insomma, era una scelta familiare su cui pesavano interessi economici, aspettative e ambizioni sociali delle due famiglie che combinavano le nozze. E questo non poteva non avere conseguenze sui rapporti coniugali. Anche in un matrimonio felice, non era affatto detto che la coppia fosse unita da quello che oggi chiamiamo amore, vale a dire da un amore di tipo romantico o passionale. Il che non significa, naturalmente, che i matrimoni d’amore non esistessero. Significa che l’amore coniugale nulla aveva a che fare con il romanticismo e la passione: era un affetto che non doveva causare turbamenti, come inevitabilmente fa la passione. Era un sentimento che si supponeva si sviluppasse solo dopo le nozze, non prima di queste, come del resto chiaramente indica l’espressione sopra incontrata «bene concordantia matrimonia». Un matrimonio felice era un matrimonio in cui vi era comunanza di intenti, accordo e comprensione. Questo si chiedeva, questo ci si aspettava dal matrimonio. I romani non si sposavano per amore, nel senso moderno del termine. Il matrimonio era dettato da considerazioni pratiche, e la sua funzione principale era la procreazione, peraltro desiderata non necessariamente e non solo come soddisfazione di un desiderio individuale di paternità o di maternità. A quanto pare, infatti, i romani non avevano (o non avevano più, sul finire della Repubblica) un simile desiderio. Il calo delle nascite –anche se certamente, dovuto a un insieme di cause, troppo complesse per essere qui discusse– era un fenomeno serio che preoccupava da tempo le autorità. Come è ben noto, la legislazione matrimoniale augustea tentò di contrastare questa tendenza e di costringere i cittadini romani in età fertile a sposarsi. La riproduzione, insomma, era percepita (e imposta) come un dovere civico. I romani, certamente, procreavano anche perché volevano avere una discendenza legittima, onde evitare l’estinzione della famiglia: ma non solo per questo, e soprattutto non in primo luogo per questo. La ragione principale e prima del matrimonio era la necessità (e il dovere civico) di generare cittadini. Di nuovo Catone e Marzia
    Questo, dunque, il contesto in cui si inserisce la vicenda di Catone e Marzia. Un contesto noto, che era peraltro indispensabile ricordare per tentare di collocare nella giusta prospettiva il loro comportamento. Alla luce del perdurante potere paterno di interrompere i matrimoni dei figli, in primo luogo, la richiesta di Ortensio di sposare Porzia appare assolutamente normale. Probabilmente Porzia aveva contratto con Bibulo un matrimonio sine manu, e quindi era ancora sotto la potestà di Catone. Se questi rifiutò la richiesta dell’amico per ragioni politiche o per amore paterno non è questione rilevante. Quel che rileva è che la richiesta di Ortensio era socialmente e giuridicamente accettabile.
E veniamo alla seconda richiesta di Ortensio: la mano di Marzia. Di fronte a questa richiesta, Catone chiese il consenso del suocero Filippo: anche il matrimonio tra Marzia e Catone, probabilmente, era sine manu. La persona che aveva il potere di interrompere il matrimonio di Marzia con Catone, quindi, era Filippo cui spettava anche il potere, se credeva, di darla successivamente in moglie a Ortensio. Se questi non si rivolse direttamente a lui, come avrebbe potuto, preferendo passare attraverso l’intermediazione di Catone, fu probabilmente in considerazione della sua grande ammirazione per l’Uticense di cui voleva il consenso preventivo. E Catone, evidentemente disposto a concederlo, interpellò il suocero non per cortesia, ma perché era tenuto a farlo. Era Filippo che doveva abducere filiam.
    Consideriamo ora il risvolto psicologico della vicenda. Alla luce della concezione del matrimonio sopra accennata, il fatto che Catonefosse disponibile a “cedere” Marzia a Ortensio non appare più cosa straordinaria, e tantomeno sconveniente. All’interno di una simileconcezione, benché l’adozione esistesse e ad essa si facesse ampioricorso, non stupisce eccessivamente che i romani, a volte, quandovolevano un figlio, si cedessero le donne.A ben vedere, questa pratica comportava parecchi vantaggi: per cominciare, come dice esplicitamente Ortensio nel discorso con ilquale cerca di convincere Catone a dargli in moglie Porzia, essa dava la possibilità di stabilire alleanze sociali e politiche attraversouna “comunione di figli”. In secondo luogo, cedere la moglie a unamico (nelle forme di cui sopra) serviva a razionalizzare la crescita della popolazione. La città aveva bisogno che le capacità riproduttive delle donne fertili venissero sfruttate al massimo, ma se una donna dava troppi figli allo stesso marito rischiava di mettere in pericolo il benessere economico familiare. Come Ortensio disse esplicitamente, infatti, secondo la legge di natura è una cosa giusta e onorevole per lo stato che una donna nel fiore della sua giovinezza e bellezza non debba né spegnere il suo potere riproduttivo rimanendo inattiva, né, generando più figli del necessario, gravare e impoverire un marito che non li vuole. Insomma: cedere a un nuovo marito la donna che aveva generato al primo marito un numero sufficiente di figli era cosa buona sia dal punto di vista familiare sia dal punto di vista civico. Il solo svantaggio di questa pratica, rispetto all’adozione, era che l’adozione garantiva una discendenza in modo immediato e sicuro. Sposare una donna fertile, invece, benché la probabilità fosse alta, non dava risultati altrettanto certi. Ma i romani avevano trovato un modo per garantire questi risultati: si cedevano le donne quando erano già incinte. Come fece Catone, appunto: l’aspetto più interessante della vicenda, infatti –che viene generalmente passato sotto silenzio– è che Marzia, quando venne data a Ortensio, era incinta di Catone. Come scrive Plutarco: «non si può dire che Ortensio fece ciò [scil. chiese la mano di Marzia] perché sapeva che Catone la trascurava: al tempo infatti, come sappiamo, la donna era kuousa (incinta)». Di nuovo, dobbiamo ripetere l’avvertimento già dato: sbarazziamoci delle nostre idee cerchiamo di entrare nella mentalità romana.Quel che per noi è certamente singolare, lo era assai meno per i romani. Ai quali, infatti, accadeva di “far circolare” le mogli incinte. Nell’81 a.C., ad esempio, Emilia era incinta quando fu costretta a divorziare da suo marito e a sposare Gneo Pompeo. A costringerla, nella specie, era stato Silla che, sposato in quarte nozze con la madre di Emilia, Metella, si era sempre comportato come padre di Emilia. Ma il caso più famoso –quasi superfluo dirlo– è quello di Livia, la moglie di Augusto. Quando fu data in moglie a Ottaviano, nel 38 a.C., Livia era sposata con Tiberio Claudio Nerone, e dopo aver dato alla luce Tiberio era incinta di Druso. In verità, anche questo fu un caso che fece discutere. Due brevi passi di Tacito suggeriscono che Augusto avesse imposto con la forza la sua volontà e Svetonio, nella vita di Augusto, scrive che Augusto abduxit Liviam. Ma nella vita di Tiberio lo stesso Svetonio scrive che Nerone concessit sua moglie tunc gravidam. L’idea di un’imposizione augustea, insomma, è un evidente tentativo, da parte di Tacito, di tratteggiare l’immagine di un principe-despota; ed è –comunque– in contrasto con le altre fonti. Quel che accadde, in realtà, fu che Nerone e Ottaviano si accordarono sul futuro di Livia: esattamente come avevano fatto Catone e Ortensio, quando avevano deciso il
futuro di Marzia.
   Erano forse, simili accordi, in contrasto con la mentalità o con il  diritto romano? Dal punto di vista giuridico, nessuna regola proibiva il matrimonio con donne incinte. Secondo Augusto Fraschetti questi matrimoni sarebbero stati proibiti dai mores romani fino al momento in cui la donna avesse partorito, come si potrebbe dedurre dal fatto che Ottaviano, prima di sposare Livia, chiese l’opinione dei pontifices. Ma Tacito dice che i pontifices risposero che il matrimonio era permesso se era possibile sapere chi fosse il padre del bambino, e aggiunge che questo era possibile in base a un antico mos. Né vale, a liberarsi della testimonianza di Tacito, asserire, come fa Fraschetti, che questo mos sarebbe  venuto meno in età classica, come dimostrerebbero il tono e il commento di Tacito, secondo il quale il fatto sarebbe stato ludibrium: di nuovo, Tacito era un nemico politico di Augusto. E al di là di questo, come ben sappiamo, pochi anni prima di Livia, Marzia si era risposata
incinta, e nessuno, neppure tra i nemici di Catone, aveva detto che il suo matrimonio con Ortensio violava gli antichi mores. Così come non li violò il matrimonio di Livia e di Ottaviano. Al di là di ogni altra considerazione,
questo fu celebrato con il consenso di Nerone al quale le fonti attribuiscono addirittura un ruolo attivo nella celebrazione. Secondo Velleio Patercolo, infatti, Livia fu desponsa ad Augusto proprio da lui, e Dione Cassio scrive che Nerone diede Livia in moglie ad Augusto “come se fosse suo padre”. Esattamente come fece Catone con Marzia: anche Catone infatti era presente alle nozze della sua ex moglie con Ortensio.Vediamo di chiarire, a scanso di equivoci: dal punto di vista giuridico, la donna non veniva data in moglie dall’ex marito, bensì dal padre. La presenza dell’ex marito, quando la sposa era incinta, era un fatto sociale: era il segno del suo consenso, la dimostrazione dell’accordo, la consacrazione di un’alleanza che univa non due, ma ben tre
famiglie. La cessione della moglie incinta, insomma, non era un fatto eccezionale, non era una pratica riprovata: quantomeno non era tale tra i membri di famiglie appartenenti alla élite, come quelle cui appartenevano i protagonisti delle storie sopra citate. Ma dobbiamo ritenere, così stando le cose, che la cessione delle mogli avesse luogo solo tra queste famiglie?
   Anche se, in effetti, è molto probabile che fosse assai più diffusa tra le classi alte, questo non toglie che le fonti serbino traccia di vicende analoghe anche in ambienti meno potenti e meno economicamente privilegiati. In un passo molto interessante e controverso delle vite di Licurgo e Numa, Plutarco scrive (Lycurgus-Numa, 3, 1): Con riferimento alla comunità di matrimonio e di parentela, entrambi (Licurgo e Numa), con una sana politica, convinsero i mariti a liberarsi da egoistiche gelosie. Tuttavia, i loro metodi non erano uguali. Se un marito romano aveva un numero sufficiente di figli da allevare, un altro, che non aveva figli, poteva convincerlo a lasciargli sua moglie, consegnandogliela a tutti gli effetti, o solo per una stagione; lo spartano, invece, mentre sua moglie rimaneva nella di lui casa e il matrimonio manteneva i suoi diritti e i suoi doveri originari, poteva permettere a chiunque ottenesse il suo consenso di dividere con lui sua moglie, al fine di generare figli da lei.
Ma le considerazioni più interessanti vengono dalle fonti giuridiche, che a differenza delle fonti storiche e delle altre fonti letterarie non registrano solo la vita dei “ricchi e potenti”, ma anche quelle dei comuni cittadini, la cui mentalità in materia di matrimonio e riproduzione traspare con evidenza da alcune disposizioni testamentarie. Conservate nel Digesto, infatti, alcune di queste disposizionimostrano dei mariti, del tutto sconosciuti, che –evidentemente preoccupati per il futuro delle loro future vedove– dispongono in modo che queste possano continuare a svolgere le loro funzioni riproduttive. Un primo, significativo esempio trovasi in Digesto 22, 1, 48
(Scevola, 22 digestorum): Un marito lasciò alla moglie l’usufrutto di un terzo e, nel caso avesse avuto anche dei figli, la piena proprietà di quella parte dell’eredità. Gli eredi accusarono la moglie di aver falsificato il testamento e di altri crimini, così da impedire l’acquisto del legato; poiché nel frattempo alla donna nacque un figlio, avverandosi così la condizione posta nel legato, alla domanda se, una volta rivelatosi autentico il testamento, si dovessero consegnare alla donna i frutti, Scevola rispose che si doveva.
Un marito –dunque– aveva lasciato l’usufrutto di un terzo dei suoi beni alla vedova, stabilendo che questa avrebbe ottenuto la proprietà di questo terzo se avesse avuto figli. A Roma, se ne deduce, esistevano mariti che, senza essere particolarmente ricchi, potenti o eccentrici, non volevano che le loro mogli, se rimanevano vedove in età ancora fertile, non utilizzassero le loro potenzialità riproduttive. Come sembra chiaramente mostrare un passo di Pomponio in materia di dote: «Preservare le doti delle donne è nell’interesse pubblico. È davvero necessario che le donne continuino ad avere una dote per procreare e per dare figli alla città» (Digesto 24, 3, 1 Pomponius, 15 ad Sabinum). Ovviamente, Pomponio si riferisce alle vedove e alle divorziate
che, senza dote, avrebbero avuto difficoltà a risposarsi, e quindi sarebbero venute meno al loro compito di procreare. Ma il caso più interessante è forse quello descritto in Digesto 35,1, 25 (Iulianus, 69 digestorum): Nel caso di un uomo, che lasci un fondo a sua moglie, alla condizione che essa abbia dei figli, se la donna, dopo il divorzio, genererà dei figli da un altro e quindi, sciolto il secondo matrimonio, ritornerà presso il primo marito, non si deve ritenere avverata la condizione posta nel testamento: poiché non è verosimile che il testatore abbia inteso trattarsi di figli generati da un altro nel corso della sua stessa esistenza. Un marito (siamo all’epoca di Adriano) lascia parte dei suoi beni alla moglie a condizione che si risposi e che generi figli a un nuovo marito. Senonché accade che il marito, dopo aver scritto questo testamento, divorzi dalla moglie, che si risposa e genera altri figli dal nuovo marito. Ma successivamente divorzia dal secondo marito e risposa il primo. Donde il problema: quando quest’ultimo muore, le condizioni poste nel testamento sono da considerare realizzate? Secondo Giuliano, cui il caso viene sottoposto, la condizione prevista dal marito nel testamento non si è verificata. La circostanza cui egli subordinava il lascito, infatti, era la sua moglie generasse figli dopo essere rimasta la sua vedova, non prima. Oltre a farci conoscere un altro marito preoccupato di evitare che la fertilità di sua moglie si spegnesse alla sua morte, il passo incuriosisce per altri motivi: una moglie divorzia da un marito, ha dei figli da un secondo marito, quindi risposa il primo. Non pretendo certo di avanzare un’ipotesi, ma è difficile tacere una suggestione: è possibile pensare che il secondo matrimonio fosse stato concordato, tra i due uomini, per consentire al secondo marito di avere dei figli, con l’intesa che, una volta raggiunto lo scopo, la moglie ritornasse dal primo? In qualche modo, la storia fa pensare a quella di Catone, Ortensio e Marzia. Ma dimentichiamo le suggestioni e limitiamoci a quello che emerge con certezza dai testi. I mariti di cui ai casi sopra citati si preoccupavano, tutti, di predisporre condizioni favorevoli agli ulteriori matrimoni delle loro future
vedove. Non le cedevano ad altri in vita, come Catone. Ma l’idea che stava alla base delle loro disposizioni di ultima volontà era la stessa che ispirava chi cedeva la propria moglie a un amico: ogni donna doveva sfruttare al massimo le sue potenzialità riproduttive. Sembra quasi che le donne capaci di avere figli fossero considerate una “specie protetta”, che il diritto si era incaricato di aiutare, o talvolta di obbligare a svolgere il suo compito. E a conferma di questa sensazione interviene il riferimento ad alcune regole sui poteri che spettavano al marito sulla moglie incinta (venter). Come è ben noto, se divorziava dalla moglie mentre questa era incinta, il marito aveva il diritto di chiedere la nomina di un curator (o custos) ventris, incaricato di controllare che la donna non avrebbe provocato un aborto.Ma ciò che maggiormente colpisce è che la custodia ventris non era solo nell’interesse del marito. Era nell’interesse di questi, nell’interesse della famiglia e nell’interesse della città, come chiaramente dimostrato dalle norme imposte alla vedova incinta dall’Editto del praetor urbanus. Come leggiamo in Digesto 25, 4, 1, era a questo magistrato che spettava il controllo del venter della divorziata: era a lui che toccava interrogare la donna sulla sua gravidanza; se la donna rifiutava di rispondere, era a lui che spettava il potere di forzarla all’obbedienza, pignorando i suoi beni o imponendole una multa (Digesto 25, 4, 1, 3); se la donna negava di essere incinta, era sempre a lui che toccava nominare le ostetriche incaricate di accertare il suo stato (Digesto 25, 4, 1, 4-5). Se una vedova dichiarava di essere incinta, inoltre, il pretore era
incaricato di controllare come procedeva la gravidanza e di assicurare che il parto avesse luogo in un ambiente sicuro, alla presenza di persone che garantivano da ogni rischio di eventuali supposizioni o sostituzioni. Per finire, era sempre il pretore che, se il padre non aveva indicato la persona alla quale il figlio doveva essere affidato, o se questa persona rifiutava l’incarico, provvedeva causa cognita a indicare un sostituto e imponeva a costui di mostrare il neonato un certo numero di volte al mese, appartenente al suo ufficio, anche se non è da escludere che fosse la madre a beneficiare di questa concessione (Digesto 25, 4, 1, 10). La gravidanza, insomma, non era una questione solo privata; e non era neppure una questione solo familiare. Era una questione di stato. In questa prospettiva, non è strano che cedere la moglie incinta non fosse sconvolgente per i romani. Era una pratica che aveva dei vantaggi per il marito, dei vantaggi per le due famiglie coinvolte, e infine e soprattutto dei vantaggi per lo stato. E le donne –si direbbe– accettavano questa pratica, nel senso che consideravano normale essere cedute dal marito a un altro uomo, o –in una situazione speculare– essere rimpiazzate da un’altra donna, se non erano in grado di adempiere al loro dovere. Come mi sembra dimostri un celeberrimo elogio funebre, quello di Turia.
In un anno compreso tra l’8 e il 2 a.C. Turia morì, e suo marito, ripercorrendo la storia del loro matrimonio, così celebrò le sue virtù: Desideravamo dei figli, che un destino malevolo ci negò. Se la sorte ci avesse soddisfatto, cosa ci sarebbe mancato? Ma con il passare del tempo, le nostre speranze svanirono …. Sconsolata per la tua sterilità, e soffrendo per la mia mancanza di prole, affinché, continuando a tenerti come moglie, io non rinunziassi alla speranza di avere dei figli, hai parlato di divorzio, offrendoti di lasciare la casa vuota alla fecondità di un’altra donna, senza altra idea che quella di cercarmi e di procurarmi tu stessa una sposa degna del nostro reciproco affetto: i cui figli, tu assicurasti, avresti trattato come figli comuni …. Non vi sarebbe stata nessun cambiamento, nessuna separazione, da quel momento tu avresti avuto nei miei confronti l’affetto e la devozione di una sorella o di una amica. In verità, i dettagli della vicenda non sono facili a comprendere: cosa intende dire Turia quando afferma che nulla cambierà, e che considererà i figli della nuova donna come “comuni”? Esplicitamente, afferma che continuerà a essere devota al marito anche se non sarà più
sua moglie: allude forse a una condizione temporanea? Gli prospetta, forse, la possibilità di avere una nuova moglie solo fino al momento in cui questa non gli darà un erede e di risposare poi lei, Turia, che considererà il figlio dell’altra come suo? Impossibile dare una riposta sicura, ma una cosa è fuori discussione: pensando di non essere fertile, Turia offre al marito la possibilità di avere figli da un’altra donna. In questo caso, il marito rifiuta l’offerta: come afferma candidamente nell’epitaffio, non vuole cambiare certa dubiis. Non vuol correre rischi, insomma. Per anni Turia era stata la migliore delle mogli. Nulla garantiva che la nuova moglie fosse altrettanto perfetta. Ma questo non fa che rendere la vicenda più interessante, dal nostro punto di vista: le mogli romane, a volte, superavano persino le (non poche) aspettative dei loro mariti, in fatto di devozione. E i mariti apprezzavano questo loro oltranzismo, se così vogliamo chiamarlo: sotto lo sdegno con il quale il marito di Turia dichiara di avere declinato l’offerta traspare, in realtà, l’orgoglioso compiacimento di chi ha ricevuto la suprema prova d’amore. Ma torniamo all’atteggiamento di Turia. Pur diversa da quella di Marzia, la sua storia esprime il medesimo atteggiamento, rivela la medesima mentalità: anche Turia accetta senza riserve il suo ruolo di riproduttrice. Esattamente come Marzia, alla cui storia è ora giunto il momento di tornare. Ricordando gli eventi seguiti alla morte di Ortensio, Lucano scrive: Il sole dissipava le gelide ombre, quando alla porta venne a bussare Marzia veneranda Marzia, piangente per Ortensio, il cui sepolcro aveva appena lasciato. […] E così parlò, mesta: finché vi era in me ancora sangue, finché vi era forza materna, Catone, ho fatto quel che mi hai ordinato, Catone. Ho avuto due mariti e ho dato loro dei figli. Ora torno con il ventre stanco, esausta dai parti, non più in grado di essere ceduta a un altro uomo. Concedimi di rinnovare i casti legami del primo letto; dammi il nome soltanto di moglie; che sia lecito scrivere sulla mia tomba: “Marzia, moglie di Catone”. Naturalmente il racconto è frutto dell’immaginazione di Lucano, gli eventi sono chiaramente drammatizzati. Ma è evidente che la scena doveva sembrare plausibile ai romani che leggevano il poema: per loro, l’attaccamento di Marzia a Catone era comprensibile; per loro non era sorprendente che una moglie ceduta ad altri desiderasse tornare ad essere moglie del primo marito. Analizzando la storia di Marzia e la pratica di cedere donne fertili Yan Thomas, ha scritto che i romani avevano inventato una forma di adozione prenatale. Io andrei oltre, e suggerirei che avevano inventato la maternità surrogata. Naturalmente, a modo loro. Ma, come scrive Leslie Poles Hartley, dobbiamo sempre ricordare che «il passato è un paese straniero: si fanno le cose in un modo diverso, là».
 
Eva Cantarella, Docente di Diritto romano e Diritti dell’antichità,
Università di Milano.

Il viaggio della luna nei Canti di Giacomo Leopardi (percorso tematico)

Di Ermes Dorigo
Sinossi
l’Autore ripercorre, nell’ordine cronologico, le metamorfosi e l’incostanza enigmatica della luna nei Canti; luna come immagine interiore; presenza inquieta e polisemica, ambigua e allegoricamente proteiforme, natura non Natura, simbolo della giovinezza e della vecchiezza assieme, come dimostra con una nuova interpretazione dell’ultima lirica Il tramonto della luna, età contrastate entrambe, come l’astro lunare, appunto.

Il viaggio della luna nei Canti di Giacomo Leopardi

lunedì 16 novembre 2009

Introduzione al Paradiso

Incontri sulla Commedia di Dante
con la prof.ssa Anna Maria Chiavacci Leonardi
(Università di Pisa)
Paradiso

Da una lezione tenuta presso il Liceo "Giuseppe Parini", Milano

Nelle prime due mattine ho dato un’introduzione generale, senza fermarmi subito sulla Cantica, e so che voi ormai siete esperti, essendo ormai al terzo anno dello studio di Dante; comunque cerchiamo di dare anche qui un minimo di introduzione per entrare poi subito nel merito della terza Cantica, che naturalmente dà il senso a tutto il resto: se si tralascia il Paradiso la Divina Commedia non ha più senso, non lo hanno l’Inferno né il Purgatorio, sarebbe una casa senza coperchio, diciamo così, una strada senza fine; è proprio il Paradiso quello, in qualche modo, da cui comincia l'idea di tutto il Poema.

Nei giorni scorsi si è accennato alla grande diffusione mondiale di questo libro, il che appunto sembra una cosa strana, data la differenza e lontananza di tutte le culture che pure lo leggono con grande entusiasmo: vietnamiti, coreani, giapponesi -lì c'è una scuola addirittura di dantismo - pakistani... Non c'è lingua -che abbia una cultura- dove non sia stato tradotto il poema di Dante. Non solo letto, ma letto come un contemporaneo con cui confrontarsi, con cui discutere, di cui si sente in qualche modo appunto la contemporaneità. E si osservava che ciò dipende quasi sicuramente dal fatto che, a differenza degli altri grandi poemi dell'umanità, dei classici di Omero, Virgilio, etc., porta con sé, esprime potremmo dire, con grande arte come tutti sanno, l'identità stessa della civiltà del nostro Occidente, di quella civiltà europea costruita con grande lentezza nel Medioevo, assorbendo in sé la tradizione greco-romana ed ebraico-cristiana.

La Commedia è nata, come sapete, proprio sulla fine dell'età medievale quando si era compiuto questo periodo di fusione. Tale civiltà è ancora quella che nel mondo è conosciuta, ed è, ormai, egemone nel mondo, e porta con sé quei valori che riguardano soprattutto l'uomo, la sua dignità, i suoi diritti -i famosi diritti umani della Carta che quasi tutti i popoli hanno sottoscritto- quei valori che reggono in fondo la società civile oggi: il valore dell'uomo, potremmo dire la qualità razionale dell'universo da cui sono possibili tutte le scienze; che ci siano delle leggi che regolano l'universo: e qui la ragione umana, la quale può quindi conoscerlo; di qui nascono tutte le scienze e tutta la tecnologia. E dai diritti dell'uomo nasce ciò che regge la società appunto civile.

Da questa contemporaneità, appunto, l'interesse profondo di tutti i popoli di tutte le lingue per questo testo che però vince, avvince, attira, per cui poi uno casca nella rete di Dante per la grande umanità che lo pervade. E' la passione per l'uomo che Dante ha e che lui conosce, in tutte le sue sfumature, nei sentimenti più delicati come in quelli più feroci, come appare dalle storie che lui ci racconta, e tutti si è attratti da questo: il sorriso della madre verso il bambino, come la ferocia dell'uomo che tradisce o che uccide. I gesti anche dell'uomo, il sorriso, l'abbraccio fraterno, tutti i gesti sono visti nella Commedia con una partecipazione, un'attenzione straordinaria.

Attraverso questo rapporto di Dante con l'uomo, appunto, passa quella corrente che travolge, in qualche modo, che attrae tutti dentro la sua rete. Ma questa attenzione d'amore all'uomo ha una sua origine: quell'idea del mondo, dell'universo e dell'uomo dentro l'universo che è propria di Dante: la grande dignità della creatura umana in questo mondo, quest'uomo libero, unico essere libero nelle leggi del cosmo, e immortale; quest'uomo che vive nella storia, ma non finisce la sua vita nella storia. Questo racconta la Commedia, e soltanto l'idea del viaggio nell'aldilà già dice questo. L'invenzione di Dante di raccontare l'aldilà è il modo per cui dare, e far capire, un senso alla vita dell'al di qua. Nell'aldilà tutti gli uomini di Dante -quelli con i quali parla, che noi incontriamo- vedono la propria vita, la raccontano in parte, ma la vedono appunto da un'altra riva, quindi possono misurarne il senso e il valore. Questo aldilàdà significato di fatto alla storia: fuori dalla storia, da una sponda che la oltrepassa, si può misurare e dare un significato e un valore alla storia stessa.

Quindi non ha niente a che fare, l'aldilà di Dante, con i racconti di visioni che pure erano diffusi nel Medioevo, che avevano un valore largamente e modestamente pedagogico, di spaventare con gli orrori dell'inferno, d'invogliare con i paradisi; i quali paradisi -per entrare nel nostro tema- erano tutti paradisi terreni: cioè descrivevano delizie, giardini bellissimi, luoghi di piacere; magari piacere elevato, raffinato quanto volete, ma sempre luoghi della terra. Queste sono le visioni che noi abbiamo; non c'era l'idea che Dante invece ha: forse l'unico, anzi senz'altro l'unico, che abbia tentato di affrontare, di rappresentare questo aldilà non come un duplicato della terra, ma [come un luogo] che avesse una vera dimensione oltre-temporale. Questa è la sfida della terza Cantica. Certo la terza Cantica non ha quella immediata, facile attrattiva che hanno le altre due, dove uno ritrova se stesso: l'uomo dell'Inferno, l'uomo del Purgatorio è uno di tutti noi. Ma è molto difficile il Paradiso, perché Dante stesso ha accettato questa sfida di rappresentare un mondo, questo terzo regno, questo aldilà, che è appunto oltre il tempo, oltre la storia, fuori dalle categorie che a noi sono conosciute: un mondo spirituale. Questa grande sfida del Paradiso certo ha creato una grande poesia, ma difficile. Questo non vuol dire che non si debba godere, ma, come dicevo sempre ai miei studenti, anche la musica di Bach è difficile; non è che tu, se ad un giovane o ad un vecchio che sia, che finora ha sentito solo canzonette, gli fai sentire un brano di Bach, subito s'entusiasmi: spesso non lo capisce o si annoia. Tutte le cose molto grandi sono difficili, però hanno anche un grande, grande fascino. Una volta che uno, insomma, si fa coraggio per affrontare anche questa difficoltà, dopo viene ricompensato dalla grandezza, dalla bellezza di questo testo, come appunto dalla grande musica. Il paragone spesso aiuta a capire la musica del Paradiso: difficile, ma straordinariamente grande e bella. Ecco, Dante ha fatto questo tentativo di rappresentare qualcosa che non sarebbe rappresentabile; e questo è detto fin dal principio: è un mondo che oltrepassa in qualche modo l'esperienza dell'uomo, non è sperimentato sulla terra normalmente, come gli altri mondi che noi abbiamo visto, non è sperimentabile comunemente, non tutti i giorni; però c'è un'esperienza, sempre, dell'uomo, che è una esperienza del divino: su questo si fonda la terza Cantica; l'uomo ha dei barlumi forse, dei momenti, non tutti gli uomini possono averla, ma è data all'uomo, e quasi tutti hanno il minimo di esperienza di intravedere questa realtà suprema che l'oltrepassa [l’uomo, n.d.R]; tutti gli antichi popoli l'hanno intraveduto. Ecco, Dante dice fin da principio che è stato in un luogo di cui è difficile parlare: “e vidi cose che ridire/né sa né può chi di lassù discende” (Par. I, 5-6) , così è detto nel I Canto, che probabilmente voi avete letto. Allora che cosa dice, se non si può ridire quel che ha visto? Come fa a scrivere, a raccontare? Ecco, lui lo racconta, cioè ce lo spiega: è rimasto in lui qualcosa di questa visione, come un'ombra; e lo dice rivolgendosi ad Apollo, in quella invocazione classica che fa, come nei Poemi antichi, alle Muse; ma in questo caso Apollo naturalmente rappresenta qualcosa di più del dio pagano, è la poesia ispirata in questo caso da Dio stesso. Bene, lui chiede: “se mi ti presti/tanto che l'ombra del beato regno/segnata nel mio capo io manifesti” (Par. I, 23-24): cioè, che cosa è rimasto a lui? Qualcosa è rimasto di questa visione, non si può ridire, non si può raccontare, non si può però c'è qualcosa da raccontare, quest'ombra che è rimasta impressa “segnata” -dice- “nel mio capo”.

Nell'ultimo Canto, quando arriviamo alla fine, c'è come un cerchio che si chiude: si riprendono quasi le stesse parole dette nel I, e lui dice appunto che la sua visione svanisce, si allontana dalla mente, e “ancor mi distilla/nel core il dolce che nacque da essa” (Par. XXXIII, 62-3): questo è detto nell'ultimo del Paradiso. C'è qualcosa che è rimasto, questa impressione di dolcezza; e poi continua con tre immagini: “Così la neve al sol si disigilla;/così al vento ne le foglie levi/si perdea la sentenza di Sibilla” (Par. XXXIII, 64-6); ma c'èqualcosa, un'orma impressa, segnata, una specie di orma che è rimasta nel suo cuore, è questo che lui cercherà di trasmettere, appunto; “quant'io del regno santo/ne la mia mente potei far tesoro,/sarà ora materia del mio canto” (Par. I, 62-3) : ecco, lui ci dice fin da principio questa difficoltà; che però qualcosa è rimasto, e questo qualcosa lui ci darà. Lui ha tentato -come ha fatto del resto per gli altri due regni-, se li è inventati tutti lui, come si diceva in questi altri giorni, come è fatto l'Inferno, come è fatto il Purgatorio, anche fisicamente: non c'era una simile descrizione di questi aldilà, erano sempre vaghe; lui li ha creati in maniera precisa, e s'è inventato tutta la situazione, come poi vedremo; la cosa che preme a noi, [è che] ha inventato la situazione dell'uomo in questi mondi: che cosa pensa, qual è la sua psicologia, ognuno determinato nella sua storia. Ecco, lo stesso ha fatto in maniera molto difficile per il Paradiso: anche il Paradiso lui l'ha immaginato, l'ha inventato potremmo dire; e ha voluto creare un mondo dove ha rinunciato ai mezzi del poeta, quelli che ha sempre usato nell'Inferno e nel Purgatorio, cioè da una parte il paesaggio, lo sfondo che si può descrivere; sia il paesaggio infernale, vi ricordate, aspro, duro e sempre violento, molto assimilabile ai luoghi più orrendi della terra, sia il dolce paesaggio del Purgatorio di cui si parlava ieri, che è invece illuminato dal sole, sempre sereno, dove si trovano fiori, come la valletta fiorita dove stanno i principi negligenti, e così via. Ma qua Dante rinuncia al paesaggio, non crea un paesaggio del Paradiso: non c'è nulla, ci sono solo dei cieli, come voi sapete, salendo di cielo in cielo, ma sono vuoti questi cieli, non c'è un paesaggio; non solo, ma rifiuta… ha rinunciato a rappresentare la figura dell'uomo: infatti i personaggi del Paradiso non hanno corpo, sono solo luci. Questo chiedeva uno sforzo supremo della fantasia; immaginate un poeta privato dei suoi mezzi: come fa?, gli uomini beati sono solo luci fiammeggianti, i cieli sono vuoti, non c'è nulla da rappresentare; quindi uno sforzo supremo della fantasia, ma volutamente Dante si è privato di questi mezzi perché doveva appunto tentare di raffigurare un mondo oltre la storia, oltre l'umano, oltre il sensibile, un mondo spirituale. Allora lui ha usato l'unico corpo, quello che è più immateriale di tutti: la luce; e con la luce ha creato tutto il Paradiso, fino all'Empireo, come ora tra poco diremo, dove le cose cambiano all'improvviso. Dunque si sale in questo mondo dove non scorre il tempo -mentre nel Purgatorio, come si diceva ieri, si sottolinea questo sorgere e tramontare del sole che accompagna sempre i due viandanti, come sulla terra insomma; là il tempo non c'è, non c'è cammino, come Virgilio e Dante nell'Inferno e nel Purgatorio camminano, si affaticano a salire o a scendere per dirupi, per luoghi diversi, ma è sparita questa dimensione. Come si fa a passare da un cielo all'altro? Dante stesso lo dice: è solo guardando Beatrice che lui si accorge di essere passato nell'altro cielo, dalla maggior bellezza di lei, dalla maggior luce del cielo che li accoglie; tempo non c'è, lui dice infatti a un certo punto: “E’ Bëatrice quella che sì scorge (scorge vuol dire ci accompagna) /di bene in meglio, sì subitamente/che l'atto suo per tempo non si sporge” (Par. X, 37-9), cioè non si estende in una durata temporale perché il tempo è ormai oltrepassato. Questo mancare quindi di tutti i riferimenti terreni, come il tempo è così importante. E in questo mondo Dante fa incontrare, appunto come nell'Inferno e nel Purgatorio, gli spiriti beati; però anche qui la tipologia è diversa: questi spiriti sono nascosti ognuno nella loro luce, si annidano, come dice Dante, nella luce che li riveste, li avvolge, che è la luce della loro gloria, della loro vita paradisiaca. I beati si intravedono nei primi cieli, dove ancora Dante immagina che ci sia un minimo di ombra della terra che ancora resta, e quindi si può intravedere: voi ricorderete -chi ha letto il III Canto-, che nel cielo della luna dove sta Piccarda si intravedono questi volti, sembrano specchiati sembianti(Par. III, 20) , sembrano specchiati nell'acqua, ma ancora si possono intravedere queste sembianze umane, si vede appunto Piccarda che sorride. C’è questa lontana visione con quella bella immagine del volto riflesso nell'acqua, e Dante faticosamente finisce col riconoscere quel volto trasfigurato dalla bellezza divina. Dopo invece, questo si perde nei cieli superiori, non c'è più il volto umano; resta un unico volto che Dante si conserva, un unico appoggio nella salita che è il volto di Beatrice: è il suo conforto, perché non sa dove posare lo sguardo e il viso di Beatrice che lo accompagna è sempre illuminato dal sorriso. Ecco -questa è una cosa importante secondo me- l'unico gesto umano che Dante mantiene in tutta la salita del Paradiso fino all'Empireo è il sorriso che, come lui scriveva già nel Convivio -è una frase importante-: "e che è ridere se non una corruscazione (corruscare è quel tremolare, la luce tremolante) della dilettazione dell'anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo che sta dentro”? (questo è Convivio III, 8-11, se qualcuno volesse andarselo a vedere). Ma c'è anche il verbo "corruscare" che ritorna poi nel Paradiso a significare il sorriso, che è come l'espressione della dilettazione cioè della gioia dell'anima: è l'unico gesto -possiamo chiamarlo gesto insomma, anche se non è del tutto proprio- dell'uomo fisico, sensibile, del volto umano che si vede attraverso il Paradiso delle sfere finché si arriva all'Empireo. Questo sorriso appare poi, anche se non direttamente, nei visi; ma nei Beati, è spesso detto di loro che appaiono e si vede nella loro luce il sorriso interno; così è detto per esempio di Cacciaguida “chiuso e parvente del suo proprio riso” (Par. XVII, 36), cioè quella luce esterna è il sorriso che dentro fa l'uomo. E questa invenzione è una della tante, perché le invenzioni del Paradiso si moltiplicano, sono straordinarie. Però, tornando alla differenza importante, queste storie non sono più come quelle infernali o purgatoriali, cioè siamo qui su un'altra dimensione e le storie singole, private, degli uomini sono pochissime. Solo nei primi Cieli c'è ancora qualche storia come quella di Piccarda -appunto nel I Cielo-, che racconta in poche parole la sua storia, un po' come fanno le anime degli altri due Regni -c'è la breve storia di Romeo, c'è ancora la storia di Cunizza-; siamo sempre però nei primi Cieli, i famosi primi tre Cieli dove secondo l'astronomia tolemaica giungeva l'ombra della terra, ma poi altre storie non ce ne sono, perché qui non è più data importanza al ricordo della storia terrena. La diversità che Dante inventa è questa straordinaria concordia dei beati nella loro pace suprema, che consiste nell'identificazione della propria volontà con quella di Dio. Piccarda definisce praticamente la situazione delle anime del Paradiso con la terzina ben nota “E ’n la sua volontade è nostra pace:/ell’ è quel mare al qual tutto si move/ciò ch’ella crïa o che natura face” (Par. III, 85-7): nella volontà divina è la pace nostra dice lei, cioè la gioia e la pace di tutti i beati è concorde armonia, che appunto stride fortemente con la continua discordia dell'uomo terreno che è sempre in lite o in discordia con l'altro.

Le singole vicende sono come allontanate, allontanate nel tempo, perché ora si guarda piuttosto in avanti, cioè nella presenza eterna della gloria che li avvolge. Ci sono delle grandi storie nel proseguire del Paradiso: la grande storia di S. Francesco per esempio, come di S. Domenico -le due storie gemelle-; però il loro valore è diverso: sono grandi storie etiche, raccontate in senso profetico per rappresentare appunto, nella decadenza della Chiesa, questo uomo mandato da Dio a salvarla; e la storia di Francesco è un esempio, quindi ha un valore pubblico potremmo dire, non più di raccontare uno ricordando la propria vita, come fanno gli altri degli altri due Regni. C'è la grande storia dell'Impero narrata da Giustiniano, ma anche quella ha un altro valore pubblico e profetico come dicevo prima, mentre le singole sono via via allontanate sempre di più. E che cosa cresce, via via? Dante ha immaginato una crescita del vedere: cioè qui sono l'occhio e l'udito che contano, l'occhio vede, sempre di più e l'udito anche -i due sensi nobili in fondo, come si chiamavano dell'uomo-, che è appunto -come dire- irrorato continuamente, beneficato dalla musica, che fin dal principio si sente risuonare; musica quasi sempre corale, anzi direi sempre corale, dei beati, che appunto esprime questa concordia armoniosa, e dove Dante quasi sempre sottolinea la diversità delle voci; cioè quella che si chiama polifonia, che allora incominciava -io non mi intendo molto di musica, ma insomma, mi sono un po' informata-, cominciava allora questo canto polifonico che Dante amava moltissimo, come appare in vari luoghi del poema; e qui fa dire proprio ai beati questa definizione -che è appunto del canto polifonico che lui applica alla vita paradisiaca- “Diverse voci fanno dolci note”: ecco queste sono voci diverse che fanno una musica dolcissima “così diversi scanni in nostra vita/rendon dolce armonia tra queste rote” (Par. VI, 124-6). La diversità di ogni beato, la diversa gloria dell'uno dall'altro crea l'armonia, appunto; vedete questo paragone: Dante quasi sempre quando presenta cori o canti o musica del Paradiso accenna a questa diversità dei vari timbri delle varie diverse voci. E però quello che più conta è l'organo della vista: tutto il Paradiso è centrato sulla vista, non c'è altro, e appunto la luce è il suo corrispondente; e questa vista cresce sempre più, da una parte in visione sensibile, dall'altra, come scrivevo un tempo, in visione invece intellettuale, perché come tutti sapete via via nella cantica ogni tanto appaiono grandi discorsi, che di solito sono considerati noiosi, e sono quelli dei grandi eventi teologici che Dante racconta.

Su questo non abbiamo tempo di fermarci perché sarebbe un discorso lungo; tuttavia si può osservare che questi testi teologici raccontano non problemi logici ma eventi, eventi raccontabili quindi: ci sono degli attori, la creazione è un atto, è un gesto, la redenzione lo stesso, racconta la discesa del Verbo nella carne; sono eventi con attori, situazioni che si possono in qualche modo narrare: non c'è una discussione di carattere esclusivamente teorico, qui semplicemente si racconta.

Quali sono questi grandi gesti raccontati? La Creazione, la Redenzione -in quel Canto bellissimo che è il VII-; la Resurrezione, altro grande momento del Paradiso -il Canto XIV forse è uno dei più belli di tutto il Poema, che contiene appunto questo prezioso luogo, descrive la resurrezione dei corpi dei Beati all'ultimo giorno-; ecco questi grandi temi sono quelli che sempre tornano nella cantica, accanto alla visione invece più accessibile a tutti che è quella della bellezza dei Cieli delle loro luci.

Come fa Dante quindi a rappresentare questi luoghi dove c'è solo luce? Usa le similitudini. E' il mezzo più semplice, più diretto che ha il Poeta, e naturalmente su queste similitudini si costruisce poi la realtà visibile, sensibile. Per i Beati si usano tutte le similitudini. Quali similitudini? Cosa prende? Naturalmente dalla terra -l'unica cosa che l'uomo conosce- tutti gli aspetti del firmamento, sembra non [ne sia] saltato uno; quindi bisogna moltiplicare le differenze, e queste sono le mille differenze che offre la contemplazione del cielo, cielo che Dante certamente contemplava con amore e a lungo e ben conosceva. Infatti lui dice, in quella lettera famosa dove rinuncia a tornare a Firenze, dice: “beh io potrò, dovunque io sia, forse non potrò contemplare il cielo in qualunque luogo della terra io mi trovi”. Quando dolorosamente rinuncia a tornare a Firenze -perché ciò avrebbe comportato il riconoscersi colpevole come voleva la Repubblica Fiorentina (il Comune, la Signoria diciamo così di Firenze) per perdonarlo, dice: “absit a viro predicante iustitiam”, perché un uomo che predica la giustizia non può fare questo passo; dice piuttosto “preferisco restare fuori”: se queste sono le condizioni per cui Dante deve rientrare in Firenze, Dante in Firenze non rientrerà. E questo comportò dolore per lui, pene non piccole. Tuttavia adesso io mi rifacevo a questa lettera per ricordare questa sua consuetudine nella contemplazione del cielo.

Le similitudini del cielo, che sono straordinariamente belle, si moltiplicano per rappresentare i Beati: le prime [rappresentano] il primo salire delle stelle la sera (“E sì come al salir di prima sera/comincian per lo ciel nove parvenze,/sì che la vista pare e non par vera” (Par. XIV, 70-2)) questo salire delicato delle stelle; il plenilunio, quello è famosissimo, dove Trivia ride (“Quale ne’ plenilunïi sereni/Trivïa ride tra le ninfe etterne/che dipingon lo ciel per tutti i seni” (Par. XXIII, 25-7)). Ma si potrebbero moltiplicare. Gli aspetti del cielo sono la prima cosa. Poi anche per dipingere, per rappresentare gli atti dei Beati e anche il loro sentire, non avendo la figura dell'uomo, lui usa le similitudini; ma quali? E’ difficile; gli unici animali citati nel Paradiso sono gli uccelli, appunto perché volano, volano nel cielo liberi, leggeri, sono gli animali, per così dire più spirituali che ci siano; e ci sono queste bellissime similitudini tra le quali alcune notissime; ve ne ricorderò due: “Quale allodetta che ‘n aere si spazia/prima cantando, e poi tace contenta/de l'ultima dolcezza che la sazia (Par. XX, 73-5)”, cioè questa allodola che si alza nel cielo e poi tace come saziata dal suo stesso canto, contenta dell'ultima dolcezza che la sazia, tal mi sembrò appunto quello che lui vedeva nei Beati. L'altro paragone con l'uccello ci presenta un uccello alla mattina, all'alba, l'uccello-madre che aspetta ansiosamente il giorno per poter nutrire i propri figlioletti: “Come l'augello, intra l’amate fronde,/ posato al nido de’ suoi dolci nati/la notte che le cose ci nasconde”, e tutta le notte se ne sta vicino al nido dei suoi figlioletti, quando comincia il mattino “che, per veder li aspetti disïati/e per trovar lo cibo onde li pasca,/in che gravi labor li sono aggrati, previene il tempo in su aperta frasca”, cioè previene quasi il sorgere del sole, sale “l'aperta frasca” cioè sul ramo aperto in modo da poter vedere il sorgere del sole “fiso guardando pur che l'alba nasca (Par. XXIII, 1-9 passim)”: ecco questo è un uccello umanizzato, potremmo dire, è un uccello madre che è pieno di sentimenti umani. E questi sono i paragoni che Dante appunto sparge qua e là per la Cantica con gli uccelli.

L'ultimo paragone -diciamo l'ultimo perché nella scala abbiamo visto il cielo, abbiamo visto gli uccelli- l'ultimo è preso proprio dall'uomo; ma quale uomo? Il lattante. Dante usa il lattante -il bambino piccolissimo- proprio come termine di paragone per l'espressione di questi Beati che si volgono verso la gloria divina, come il lattante verso la madre. Questo è solo qualche cenno per dire come Dante sfrutta tutto quello che può di visibile, di comprensibile, sul piano umano, terreno, per rappresentarci questo aldilà. Ma poi -ecco l'ultimo momento- le cose cambiano all'entrata dell'Empireo. Come voi sapete dopo i Cieli tolemaici, dove gli sono presentati i vari Beati e Dante vede via via lo svolgersi dei vari momenti della storia, alla fine si entra nell'altro mondo, nel mondo divino fuori di ogni misura temporale e spaziale. In questo momento cambia anche la visione e in forma paradossale proprio in questo Cielo che è di pura luce, questa volta intellettuale, cioè assolutamente incorporea, qui appaiono i corpi, i corpi dei risorti.

Dunque nell'Empireo, dove cambia un po' la musica, la vera musica, si esce dal tempo e dallo spazio: con il Canto XXX Dante in un certo modo dà un vero cambiamento di rotta alla sua poesia. In quel momento lui si accorge che la bellezza di Beatrice è tale che lui non può più raffigurarla, e dice: “da quando l'ho vista in questa terra, dal primo giorno ch'io vidi il suo viso (come ancor oggi un innamorato potrebbe dire) ho sempre potuto rappresentare questa sua bellezza, ma ora è diventato per me impossibile”: “La bellezza ch'io vidi si trasmoda (=oltrepassa la misura)/non pur di là da noi, ma certo io credo/che solo il suo fattor tutta la goda” (Par. XXX, 19-21). Si entra cioè in un mondo dove ormai le cose umane, le misure umane sono oltrepassate; e qua che cosa appare all'occhio di Dante? ora tutto non possiamo descrivere, ma quello che conta è che lui vede di fronte a sé la grande visione dell'Empireo: una grande rosa candida, una candida rosa, dove sono i corpi dei Beati risorti. Cioè lui ha la visione dell'ultimo giorno -che ancora naturalmente non c'è stato, una visione anticipata, diciamo così-, e siamo fuori dal tempo, nell'eterno; ed è una cosa paradossale che proprio qui, dove si esce dal tempo e dallo spazio, qui si vedono i soli veri corpi della Commedia: gli altri, come si sa, sono fittizi, perché non ci sono di fatto, ancora non son risorti. Viceversa nell'Empireo già si vedono, con questa straordinaria visione dei corpi, finalmente, con questa rosa, che rappresenta la gloria dell'umanità dovuta appunto, secondo il cristianesimo, all'Incarnazione del Verbo che ha prodotto questa possibilità dell'uomo di partecipare alla vita stessa di Dio. E il tema del corpo risorto è carissimo a Dante: vi accenna più volte, al corpo sepolto dalla terra che un giorno appunto risplenderà nel Paradiso. C'è anche nell'inizio del Purgatorio, a Catone, quando Virgilio dice: “tu sai, vero, come è cara la libertà”, “ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara”, adesso sepolta in terra splenderà nel giorno della risurrezione. Più volte lungo il Paradiso Dante cerca di vedere i volti di quei Beati che incontra, ma non può; lo chiede anche a San Benedetto: “fammi vedere il tuo viso”, “che ti veggia con imagine scoperta”, tanto lui tiene al corpo dell'uomo, alla sua visibilità corporea; ma Benedetto dice che non è possibile, solo lassù nell'ultima sfera si adempirà questo tuo desiderio. Lo stesso quando incontra San Giovanni Evangelista: lui si sforza di vedere attraverso il fuoco, la fiamma che lo circonda, di vederne le sembianze umane, ma l'altro gli risponde: “ in terra, terra è il mio corpo”. Quindi c'è sempre questo tema del corpo sepolto, quel corpo che risplenderà nel giorno della resurrezione. Ora quassù di fatto i corpi si vedono e Dante però con grande…come dire… questa sua genialità poetica di inventare addirittura l'inventabile, non si ferma a descrivere così molto terrenamente questi corpi: sono solo vaghi accenni, vedeva visi “a carità soavi”, pochissimi leggeri accenni. Però c'è un'eccezione: ed è una sola, però basta a far capire che nulla è perduto dell'umanità in questi corpi beati, ed è Sant'Anna. San Bernardo indica a Dante alcuni nomi per far capire come è organizzata questa candida rosa e tra questi indica Sant'Anna, la madre -come forse sapete- di Maria, e dice: vedi Sant'Anna -le riserba questo- “tanto contenta di mirar sua figlia che non move occhio per cantare osanna”; cioè così gloriosa, felice di vedere la sua figliola in gloria che non muove l'occhio da lei pur continuando a cantare con gli altri. Questa annotazione così umana, della madre che guarda felice la propria figlia è una sola, però basta a capire che in questa gloria divina non si è perso nulla della determinazione storica dell'uomo, di quello che l'ha tenuto sulla terra, nei suoi affetti più cari; e quello che è detto in quelCanto che citavo prima -il XIV, della Resurrezione- quando, finito il discorso, tutti i Beati, felici, fanno un coro di gioia, Dante aggiunge una terzina singolare: “forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari anzi che fosser sempiterne fiamme”. Cioè smorzarono tutti il desiderio dei lori corpi morti, ma forse non tanto per se stessi ma per poter vedere le mamme, i padri, gli altri che furon cari in terra, e il solito Benvenuto che ho citato già ieri, il commentatore trecentesco, dice appunto: “desideravano vedere in carne quelli che amarono in carne”.

Quindi vedete l'importanza di questo corpo, che noi vediamo in terra e amiamo e che Dante dice che ritroveremo ancora: se sarà questo rapporto stabilito sulla terra non sarà toccato in nulla. E' molto importante, come vedete, per capire la posizione di Dante, che non manca mai a questa sua profonda umanità: fin lassù, dove sembra che tutto si perda in questa eternità divina, resta ogni tratto della nostra storia umana.

Ora l'ultima immagine dell'uomo che è data nell'Empireo, nella Commedia, non è tuttavia questa; c'è un ultimo momento, nell'ultimoCanto appunto, dove Dante resta solo: sparisce anche la rosa, sparisce l'ambiente che prima c'era, non c'è più nulla, c'è solo la persona di Dante davanti al raggio divino. Ecco, in questo ultimoCanto Dante cerca di penetrare -gli vengono in qualche modo mostrati- i grandi misteri del cristianesimo: la Trinità, con tre cerchi concentrici che lui cerca in qualche modo di descrivere, e l'Incarnazione. L'ultimo che lui vede è proprio questo: quello dell'Incarnazione del Verbo; cioè come vede, cosa vede? Tra i due tre cerchi lui ha l'impressione di vedere l'immagine dell'uomo, dice “dentro da sé, del suo colore stesso -nel secondo cerchio, cioè quello del Figlio - mi parve pinta de la nostra effigie”: la nostra effigie, l'immagine quindi dell'uomo, la figura umana; per cui lui si mette attentamente a cercar di capire come possa essere questo, “come si convenne l’imago al cerchio”, ma è come la quadratura del cerchio, è un problema che non si poteva risolvere: come il geometra, dice lui, che cerca di capire questo grande problema della quadratura del cerchio così io (e questo paragone è già stato fatto da altri nel medioevo, di questo mistero con questa difficoltà insolubile -tutt'oggi insolubile devo dire- della quadratura del cerchio). E Dante lascia questo mistero fino all'ultimo istante, in cui la sua mente è colpita da un fulgore e viene in qualche modo svelato il Mistero. Così chiude la Commedia: proprio con questa esaltazione suprema dell'uomo, dell'immagine dell'uomo, quindi il corpo dell'uomo, non solo lo spirito, che appare nella stessa figura divina della Trinità.

E qui mi fermo anch'io per lasciarvi il tempo di fare le vostre domande.



DOMANDE degli studenti

D- Vorrei sapere la sua opinione sulla profezia del Veltro.
R: non è proprio nel tema del Paradiso… ma comunque. Io l'ho detto, l'ho scritto varie volte: questo Veltro che Dante annuncia nell'Inferno, che è una sua speranza di questo personaggio che dovrebbe portare l'ordine, la pace nel mondo, ha, come sempre accade, due aspetti. Uno è una speranza concreta che certamente Dante ebbe in ArrigoVII: questo appare da molti dati -ora qui non è possibile elencare riscontri precisi- che ci fanno pensare a questo personaggio; del resto abbiamo le Epistole di Dante scritte in occasione della discesa d'Arrigo in Italia, dove dichiara chiaramente che lui spera in questa persona. Però c'è anche, dietro a questa prima interpretazione, un'altra che non viene meno, tant'è vero che una volta morto Arrigo e finita ogni speranza per Dante le cose non cambiano. E' morto Arrigo, ma la speranza in questo restauratore dell'ordine che verrà un giorno rimane fino alla fine del Purgatorio e poi nel Paradiso stesso. Allora qui è stato un grande studioso, Charles Davis, uno studioso americano di storia medioevale, anche dantista, che ha offerto -non è il solo, insomma, ma è quello che l'ha fatto in maniera più convincente- l'interpretazione del veltro dantesco come l'Imperatore degli ultimi tempi, degli ultimi giorni insomma, già profetizzato da vari autori profetici, che verrà un giorno quando finisce il tempo: ci sarà l'ultimo Augusto, che in un certo modo porrà in pace il mondo. Probabilmente dietro alla figura storica di Arrigo c'è la figura diciamo escatologica di questo ultimo Imperatore. E' l'idea in fondo utopica -che sempre c'è nell'umanità di questo momento [storico]- in cui il mondo sarà unificato, anche storicamente, non solo nell'aldilà; è un'idea che sempre è serpeggiata fra gli uomini, anche fra i grandi spiriti, le grandi utopie, ma che certamente corrisponde, come in Dante appare chiaro, all'idea che alla fine dei tempi -come del resto dice la Bibbia- “tutti i nemici saranno sconfitti”; quindi finiscono le discordie anche nella storia e ci sarà questa unità del mondo che appunto viene offerta dal Figlio al Padre alla fine dei tempi. Questo è probabilmente l'idea del Veltro dantesco.


D- Io mi sono sempre chiesta una cosa: se questa idea che ritroviamo anche nel Paradiso di una gerarchizzazione, del fatto che ci siano vari livelli, non rientri sempre comunque in una atmosfera di razionalità, o non sia sempre qualcosa di razionale. Beatrice nei primi canti dice spesso a Dante di non ragionare con la razionalità, cioè di abbandonare la ragione e di utilizzare un altro modo, un'altra modalità di approcciarsi a questo mondo. La domanda è se questa gerarchizzazione del Paradiso in fondo non sia sempre qualcosa di razionale, questa necessità di dover sempre fare una gerarchia, classificare.
R: Chiaramente c'è questa gerarchia che lei dice; c'è fino a un certo punto però: cioè sì, è obbligatoria, è necessario all'uomo in qualunque modo -nello stesso momento in cui parla- dare un ordine, altrimenti neppure si può fare una frase. Quindi storicamente è necessario stabilire queste differenze; però è affermato in modo chiarissimo nel Paradiso che qui le gerarchie di valori tra Beato e Beato nessuno le può fare, cioè la cosa è interna al Beato: quanto c'è di chiarezza nell'uomo, di carità, "tanto corrisponde la risposta di Dio"; ma questo è dei singoli, cosa che nessuno può sapere, questo è detto nel Paradiso. Quindi quel discorso della rosa nella quale si vedranno i nomi dei grandi Santi, delle grandi donne ebree e altri personaggi in modo da far vedere che la storia è presente nella rosa -perché appunto tutta la storia umana finisce poi nell'Eternità senza perdere la propria connotazione- non toglie però che il valore del singolo sia conosciuto solo a Dio. Questo, Dante lo fa capire più volte: è nel cuore dell'uomo che sta nascosto il suo segreto, solo Dio lo conosce. Per cui molti condannati dagli uomini si sono salvati, come si osservava nei giorni scorsi, condannati addirittura dal Papa come Manfredi, eppure salvo; molti assolti dagli uomini sono invece dannati. Questo è chiarissimo nella Commedia. Quindi c'è sempre questo ultimo luogo inviolabile alla razionalità. Ora io non posso andare a ricercare le varie citazioni ma il senso è questo: c'è la gerarchia necessaria nella storia ma c'è un luogo invalicabile alla stessa ragione umana che appartiene a Dio solo. Questo è un po' detto in tutta la Commedia.


D- La concezione del Paradiso è tutta quanta fondata sulla concezione tolemaico-aristotelica del cosmo. Io vorrei chiederle in che misura Dante si attenga alla cosmologia antica e in quale misura se ne discosti nell'ideare appunto il Paradiso, la sua struttura, la sua organizzazione.
R: Sono due cose molto diverse perché per l'aspetto fisico dell'universo lui segue la cosmologia tolemaica, questo è sicuro, ma questo è l'aspetto fisico; il Paradiso è una cosa diversa, è una cosa dello spirito, è un altro mondo infatti. Lui adopera come mezzo, didatticamente, quello dei sette cieli, perché serve appunto a dare un ordine di cui l'uomo ha bisogno, ma non è l'ordine paradisiaco: infatti questo si conoscerà nell'Empireo, quindi quella prima parte è pedagogica, ha una sua funzione, quella funzione storica appunto necessaria all'uomo. E in questo Dante segue [Tolomeo], perché lui per l'astronomia era ferratissimo: aveva studiato i testi, che conosceva molto bene, tant'è vero che riesce a darsi idee precise sul movimento dell'eclittica, dell'inclinazione, di quanti gradi è inclinata sull'equatore celeste, tutte queste cose tremende, difficilissime da capire per noi, naturalmente. Quindi in questo lui è precisissimo, ne sa parecchio di astronomia; però questo è solo un mezzo, come appunto le balze del Purgatorio, i gironi dell'Inferno: il resto è un'altra cosa, è un ordine diverso che apparirà solo nell'Empireo.


D: Un quesito relativo all'Inferno. Mi sono sempre chiesto per quale motivo Dante colloca più lontani da Lucifero gli assassini piuttosto che altre tipologie, come quelli che vengono poi posti nella pece bollente o altri. Io pensavo che gli assassini fossero in qualche modo ritenuti i peggiori, non capisco perché invece Dante collochi più vicino a Lucifero non so, penso ai barattieri piuttosto che altri….
R: Dante stesso in qualche modo dà la risposta, perché lui segue la gradazione: incontinenza, violenza e frode, come forse sapete. Considerando che la violenza è portata appunto tante volte da passione, [questi peccatori] non usano come gli altri, i successivi peccatori fraudolenti, l'intelligenza, il dono primario dato all'uomo, per l'inganno (che è l'uso distorto della ragione); questa è già la distinzione aristotelica, ma che Dante riprende nell'Inferno: è considerata la cosa più grave, perché l'uomo perde in qualche modo la sua stessa natura, cioè viola questo primario dono che ha avuto, della ragione, per usarlo per inganno. Usare la ragione per questo è la cosa più grave; la più grave poi di tutte sarà il tradimento, che appunto la usa non solo per il male, ma per il male contro chi si fida di noi quindi contro l'amore: questo è il peggiore dei peccati secondo Dante. E' un po' questa la struttura.


D: Prima lei ha parlato di sorriso come unica espressione umana che rimane nel Paradiso; vorrei sapere se Dante attribuisca appunto al sorriso una connotazione superiore a quella che è semplicemente l'espressione di una felicità, cioè se gli dia, se la caratterizzi come una qualità umana che in qualche modo pone l'uomo al di sopra degli altri esseri. Cioè volevo dire: se è solamente una espressione di felicità, quindi solamente un gesto comune, oppure se nella possibilità dell'uomo, nella capacità dell'uomo di ridere c'è dietro la manifestazione di una qualità dell'uomo che è la immaginazione, che lo porta a essere in qualche modo diverso da tutti gli altri esseri animati, compreso anche Dio.
R: Certamente il sorriso è proprio dell'uomo fra tutti gli esseri animati, infatti gli animali non sorridono -a meno che voi abbiate qualche animale che sorride, ma non risulta comunque-; mentre l'animale può piangere, può essere diciamo colto da questo dolore, ma il sorriso è un'espressione tipicamente dell'essere umano, questo è vero. E’ per questo è quello che Dante poi sceglie, perché esprime [qualcosa]: sì, può essere una cosa banale naturalmente, uno può sorridere perché è tutto allegro, perché ha da mangiare una bella torta o cose del genere. Però di suo può significare molto di più: cioè è l'espressione che rappresenta nell'uomo quella qualità oltre terrena appunto di profonda comunione spirituale, che non esiste in nessun altro essere per comunicare. Spesso [si incontrano] persone, che non riescono a parlare e che sono impossibilitate in tutto, ma [hanno] il sorriso, che può essere solo dell'occhio, perché si sorride anche con lo sguardo: un piccolo cenno del volto esprime quella spiritualità tipica dell'essere umano. Credo che sia così.


D: Vorrei sapere se, viste tutte queste immagini di musica e di armonia che spesso ci sono sia nel Purgatorio che nel Paradiso, Dante abbia avuto una qualche implicazione in quello sviluppo della storia della musica italiana che prevede una evoluzione dalla monodia liturgica cristiana alla polifonia, sia in campo religioso che in campo poi profano; visto che avevo letto in qualche commento del Purgatorio che Dante aveva fatto delle teorizzazioni e probabilmente anche lasciato qualcosa di scritto, però siccome non abbiamo documenti, ecco esattamente non c'è documentazione.
R: Certo è che lui conosceva a fondo la musica e la cosa appare chiaramente da molti luoghi sia del Purgatorio sia del Paradiso, quali quelli che ho citato, dove parla per esempio degli strumenti giga e arpa, come il suono sale al collo della cetra composto da varie voci. Ci sono tanti luoghi dove si vede la sua conoscenza sicura, anche scientificamente parlando, della musica, però che per questo una sua teorizzazione esista è un’immaginazione; che io sappia -magari verrà fuori- ma non c'è nulla al momento. Una profonda conoscenza della musica, invece, è sicura. Anzi c'è un nostro amico musicologo di Firenze, Clemente Terni -organista e anche autore di un quintetto polifonico-, che sostiene appunto che Dante abbia usato in molti luoghi della Commedia, nei suoi versi, questa sua sapienza musicale per modulare i versi in un certo modo; lui riconosce addirittura un certo andamento di note in certi versi di Dante, però di più non possiamo affermare. E' un campo certo da studiare.


D-Lei prima ha detto che Dante affronta l'aldilà per cercare di dare un significato alla vita terrena dell'uomo, però poi ci ha detto che nel Paradiso non c'è il tempo, non è presente, e quindi direttamente non è presente la storia -anche perché comunque diceva prima che c'è la storia di San Francesco che magari va presa come esempio-. Ecco, io volevo chiedere perché questa assenza della storia in una cantica così importante come il Paradiso, che a mio avviso dovrebbe dare degli esempi di buona condotta o comunque di virtù; perché la storia non c'è?
R: Un momento: non è che non c'è la storia, la storia è presente; nel Paradiso, dicevo che non si dà più tutta l'importanza alle singole vite private, ai singoli eventi, ma l'aspetto storico è importantissimo: se si pensa al VI Canto dedicato all'Impero romano, se si pensa appunto alle vite di Francesco e di Domenico nel qualeCanto si parla della Chiesa che è traviata, che ha bisogno di essere rifondata, ricostituita; ma fino all'ultimo [la storia] è presente, nel Canto di San Pier Damiani per esempio, di Benedetto, c'è una presenza continua della storia. Io dicevo che siamo al di là della storia, fuori del tempo e dello spazio, ma la storia umana oltre il tempo e lo spazio continua a essere presente perché ogni uomo porta con sé la sua storia: non c'è più lo svolgimento della storia, il movimento, ma è presente -naturalmente finché siamo in questa terra, finché Dante scrive con la sua penna la Commedia, non si può uscire dalla storia, questo è sicuro. Ma nella stessa rosa dei Beati appaiono i nomi della storia, questo come cercavo di dire -certo è difficile perché è quasi paradossale- serve a far capire che nell'eternità dell'uomo divino, diciamo così, non si perde però nulla, nemmeno un briciolo della sua umanità storica, non è che sia perduta, come dice lo sguardo della madre Anna verso la Figlia.


D: Per noi che studiamo la Divina Commedia in un contesto molto differente da quello medievale, in cui comunque la religione sta assumendo un significato diverso, non è più un costante punto di riferimento -anche per la società non soltanto per il singolo individuo- volevo chiederLe come la Divina Commedia possa essere attualizzata non soltanto a livello dell'intimo convincimento e quindi del percorso che un uomo può fare verso la sua purificazione interiore, ma proprio a livello collettivo; perché comunque mi sembra di aver capito che nella contemporaneità di Dante avesse anche un significato che andasse oltre al singolo, e quindi mi chiedevo come adesso possa essere attualizzata.
R: Attualizzata cosa vorrebbe dire?
D: La ricezione, la ricezione collettiva anche di questa opera, non so come dire; capisco il percorso individuale dell'uomo che è espresso nella Divina Commedia, però non so anche il valore più esteso alla collettività.
R: Non avendo ben capito la domanda non posso nemmeno fare una buona risposta. (in sottofondo si sente che avviene un chiarimento, N.d.R.). Beh, questo diciamo è quasi sottinteso, quasi ovvio, dicevo dell'interesse: gli altri giorni parlavo dell'interesse che in tutto il mondo -compresi appunto gli orientali, i vietnamiti ecc…- hanno per la Divina Commedia: evidentemente il messaggio, chiamiamolo così, che la Commedia porta ha un valore universale non riguarda solo l'individuo, riguarda tutta l'umanità; non per niente c'è questo appassionato studio del poema in tutto il mondo. Forse qui sta la risposta: cioè quello che la Commedia trasmette, questo valore che dicevamo dell'individuo e dell'umanità, vale un po' per tutti i popoli e per tutte le genti, non è ridotto ad una speciale confessione o situazione politica, ne trascende, è in un certo modo un messaggio per tutta l'umanità. Infatti Dante diciamo presume di parlare per tutta l'umanità, non per questo o quel popolo, per questo o quell'individuo: lui parla all'uomo intendendo tutti gli uomini. Questo è chiarissimo, è proprio tipico del poema, questo credo che si possa dire; tant'è vero che ci si riconoscono tutti.


D: Io mi chiedevo sino a che punto si possa parlare di una religiosità sincera da parte di Dante, e fino invece a che punto questa religione sia più funzionale alla sua poetica, alla sua invenzione più che a una sincera espressione di fede.
R: Cioè Dante userebbe la religione come un mezzo, così per fare, per farsi conoscere, per fare propaganda, ma non ci crede poi di fatto? Questa mi sembra un po' una qualche cosa addirittura di inverosimile; perché la profondità di quella poesia non può nascere che da un sentimento profondo e sincero, altrimenti non si scrive poesia intendiamoci bene, si scrivono libretti di propaganda o cose del genere, ma una poesia come questa è il fatto poetico che risponde di sé. Risponde praticamente coi fatti, una poesia, se è poesia, se non è appunto retorica, nasce solamente da una profonda convinzione dell'uomo; quindi questa realtà che poi ha avuto questa forza straordinaria attraverso i secoli, nasce appunto da una sincerità. Si potrà discutere su questi suoi pensieri, questo sì, ma non sulla genuinità del pensiero, sulla sincerità del pensiero. Discuteremo quello che lui ci dice, l'oggetto, va bene. A questo proposito forse quell'idea che avevo detto il primo giorno potrebbe servire: questo importante elemento della Commedia, forse il più nuovo, il più ardito, il sottolineare sempre la libertà, il primato della libertà, dello spirito sulla lettera, cioè l'uomo di fronte alla legge (“l'uomo non è fatto per il sabato ma il sabato per l'uomo”) è scritto nel Vangelo: cioè di fatto l'uomo è superiore alla legge. Questa è una cosa rivoluzionaria in genere in tutte le culture, perché prima viene la legge e poi l'uomo ed è l'idea -questa sì, possiamo dire tipicamente cristiana- presente in quella frase che ho citato prima, che è fondamentale -Dante fa molti esempi di questo-: è soltanto nel cuore che l'uomo può essere giudicato, quindi da Dio solo, la legge è fatta sì ma non è la prima cosa. Così lo scomunicato che viene salvato, così il condannato dal Papa che viene appunto salvato, così invece l'assolto dal Papa -Guido da Montefeltro- viene condannato, perché è nel cuore che si decide la cosa e l'uomo è superiore, ha una libertà che oltrepassa la legge. Questo, del resto, è straordinariamente visibile in Paradiso, quando Dante salva il troiano Rifeo, un personaggio dell'Eneide assolutamente sconosciuto, detto però “giusto”: lui non ha avuto il Battesimo, non ha conosciuto il nome di Cristo, non ha saputo niente, però è in Paradiso tra i più grandi, perché Dio ha visto nel suo cuore la sua giustizia e gli ha dato in premio questa fede che lo ha salvato. Quindi ci sono molti elementi di questo tipo nel Paradiso, in tutta la Commedia: questo è un segno che è forse il più moderno, il più profetico che si trovi nella Commedia, questo valore che ancora oggi molti mettono in dubbio, nelle culture che conosciamo almeno, dove bisogna stare attenti a mille prescrizioni: non mangiare questo cibo perché ci si contamina, e cose del genere.


D: Forse ho trovato il modo di spiegare un po' meglio quello che volevo dire prima. Volevo chiederLe come possa essere ricevuta ora la Divina Commedia in un mondo in cui una buona parte delle persone sono non credenti, e quindi il significato che può assumere un poema che è universale e che quindi io sento che può andare a coinvolgere anche chi non è profondamente cristiano e credente; ma appunto, come può essere coinvolta una persona non credente ora; quindi l'attualità della Divina Commedia, che è stata scritta in un mondo in cui tutti erano credenti, in una attualità che è diversa, cioè in un periodo diverso.
R: A questo non è che si possa rispondere in modo così storico, è evidente; ma è un fatto però, perché la Divina Commedia non propone particolari ristretti, come codici da seguire o da credere, non propone un catechismo: propone un modo di vivere fondato su questi elementi principali della libertà che dicevo prima, di questa dignità dell'essere umano, di questa sua, meta oltre terrena che alla fine è scritta nel cuore di tutti gli uomini. Su questo non credo sia possibile discutere. Fin dalle origini dell'umanità l'uomo ha tentato in qualche modo di intravedere un proprio destino diverso da un finire in una fossa, e quella Commedia è appunto organizzata e scritta, come si è visto nello sviluppo perlomeno di queste cantiche, sempre con questo alto pensiero che oltrepassa i singoli credi, le singole religioni e che quindi può essere accolto dallo spirito dell'uomo libero; come dimostra appunto la sua diffusione, la sua assoluta come dire… questo poter pervadere tutte le culture compresi appunto gli armeni –no, gli armeni no perché erano cristiani- ma i vietnamiti o i turchi, la cosa è di per sé probante. E' uno spirito superiore, quello dantesco, non è inscritto in strette pastoie di definizioni precise, ma si allarga appunto a tutte le possibilità dell'uomo. E' lo spirito dell'uomo che ne vien fuori, penso che si possa rispondere così.