lunedì 30 novembre 2009

Il sorriso d Leopardi (lettura obbligatoria)

Il sorriso di Leopardi


Repubblica — 18 ottobre 2005 pagina 49 sezione: CULTURA

Nel giugno 1821, imprigionato a Recanati dall' avarizia dei genitori, Leopardi scriveva a Pietro Brighenti: «Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l' intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m' avvezzo a ridere, e ci riesco». Ecco: l' immagine consolidata del poeta dolorante e lamentoso, intento solo a contemplare la negatività irredimibile della condizione umana e della vita (Leopardi era ancora vivo quando l' umore un po' livido di Niccolò Tommaseo lo definiva «elegantemente disperato, prolissamente dolente, e dottamente annoiato di questa misera vita»), non ha mai tenuto conto di quel «tuttavia», di quella capacità indefessa di «ridere» che lui stesso con un certo orgoglio si riconosceva. «Già del fato mortale a me bastante/ e conforto e vendetta è che su l' erba/ qui neghittoso immobile giacendo,/ il mar la terra e il ciel miro e sorrido», dichiara nella splendida chiusa di Aspasia. E una decina d' anni prima, in Alla sua donna, proprio sul ridere (della natura, questa volta) aveva modulato un autentico squillo di gioia: «O ne' campi ove splenda/ più vago il giorno e di natura il riso». Per tutta la sua breve vita, Leopardi non ha fatto altro che rincorrere una qualche forma di legittimazione di quel sorriso che gli urgeva dentro, e che avrebbe avuto bisogno di condizioni ben diverse per manifestarsi pienamente. A Recanati si annoiava, non c' è dubbio; ma non si trattava di un patologico e mortifero taedium vitae: lui avrebbe voluto conoscere gente, frequentare assiduamente i salotti, intellettuali e non, di Firenze o Bologna o Milano, fare vita mondana, amare donne; e invece era confitto dalle ristrettezze economiche e dall' intransigenza dei suoi nel palazzotto avito del «natio borgo selvaggio», quasi costretto, per passare in qualche modo il tempo, alle «sudate carte,/ ove il tempo mio primo/ e di me si spendea la miglior parte». Si annoiava, ma ne aveva ben donde. E sognava; ma non solo «interminati/ spazi (...) e sovrumani/ silenzi, e profondissima quiete», bensì anche la gloria, l' amore, il divertimento, la passione, il sesso. Nel 1822, finalmente uscito per la prima volta da Recanati e approdato a Roma, comunicherà dopo pochi giorni al fratello Carlo la sua cocente delusione: una delusione che riguardava in parti uguali la qualità degli ambienti culturali della città (l' abate Francesco Cancellieri, convinto estimatore fin dal 1814 delle abilità filologiche di quello strano enfant prodige di periferia, viene amabilmente definito «un coglione») e i costumi delle donne romane, immaginati dal poeta molto più facili di quanto fossero in realtà («non la danno», rivela piuttosto arrabbiato a Carlo). E già, le donne, croce e delizia di quel disgraziatissimo genio. Aveva innamoramenti tanto furibondi, esclusivi, affannosi quanto infelici, insoddisfatti, più o meno gentilmente declinati dalla prescelta di turno. Ecco cosa scrive da Bologna il 30 maggio 1826 al solito fratello: «Sono entrato con una donna (fiorentina di nascita) maritata in una delle principali famiglie di qui, in una relazione, che forma ora una gran parte della mia vita. Non è giovane, ma è di una grazia e di uno spirito che (credilo a me, che finora l' avevo creduto impossibile) supplisce alla gioventù, e crea un' illusione maravigliosa. Nei primi giorni che la conobbi, vissi in una specie di delirio e di febbre. Non abbiamo mai parlato d' amore se non per ischerzo, ma viviamo insieme di un' amicizia tenera e sensibile, con un interesse scambievole, e un abbandono, che è come un amore senza inquietudine». La donna è la contessa Teresa Carniani Malvezzi, che alla data della lettera aveva quarantuno anni, contro i ventotto del poeta, e che doveva essersi ben presto resa conto dei pericoli che quella platonica relazione comportava, se nell' ottobre dello stesso anno Leopardi era già costretto a implorarla per lettera: «Contessa mia. L' ultima volta che ebbi il piacere di vedervi, voi mi diceste così chiaramente che la mia conversazione da solo a sola vi annoiava, che non mi lasciaste luogo a nessun pretesto per ardire di continuarvi la frequenza delle mie visite (...) Ora vorrei dopo tanto tempo venire a salutarvi, ma non ardisco farlo senza vostra licenza». Finché poi, nel maggio 1827, letteralmente esplode con Antonio Papadopoli: «Come mai ti può capire in mente che io continui d' andare da quella puttana della Malvezzi? Voglio che mi caschi il naso, se da che ho saputo le ciarle che ha fatto di me, ci sono tornato, o sono per tornarci mai; e se non dico di lei tutto il male che posso. L' altro giorno, incontrandola, voltai la faccia al muro per non vederla». La promessa d' amore e l' immancabile disinganno: è questo il ritmo segreto che scandisce gran parte dell' esistenza intima di Leopardi, e che tocca il suo acme nella tormentata e pur sempre platonica relazione con Fanny Targioni Tozzetti, quella donna «bellissima e gentilissima (anzi l' amabilità e la bellezza stessa)» che darà un senso ai suoi anni fiorentini, e che otterrà facilmente un ruolo da protagonista nei canti scritti fra il 1831 e il 1833. E degli inizi del 1833 l' accorata e dignitosissima lettera all' «amicissimo» Antonio Ranieri, il bel napoletano che faceva strage di cuori a Firenze: «La Fanny è più che mai tua, e ti saluta sempre (...) Ella ha preso a farmi di gran carezze, perché io la serva presso di te: al che sum paratus». E nello stesso anno dichiara in versi la sua resa: «Or poserai per sempre,/ stanco mio cor. Perì l' inganno estremo,/ ch' eterno io mi credei. Perì. Ben sento,/ in noi di cari inganni,/ non che la speme, il desiderio è spento». Anche l' unica forma di infinità che Leopardi fosse riuscito a concepire, quella del desiderio, era venuta meno. Eppure ecco nel 1836 La ginestra, impropriamente ritenuto una specie di testamento spirituale, e invece fulminante apertura sul sociale e sull' oggi, inaugurazione di un nuovo «tempo» di poesia strozzato sul nascere dalla morte: una morte che, per quanto invocata, continuava umanissimamente a ripugnare alle profondità del suo essere. Scriveva appunto al padre da Torre del Greco nell' ottobre di quello stesso 1836, otto mesi prima di morire: «Ella stia riposatissima sul conto mio, perch' io uso tali cautele in qualunque genere, che, secondo ogni discorso umano, prima di me dovranno morire tutti gli altri». Altro che testamento. Ma allora chiediamoci: può ragionevolmente essere considerato un irriducibile pessimista (storico o cosmico che sia), ritenuto un nichilista corteggiatore della morte, questo gigante della letteratura e del pensiero che a Napoli chiamavano 'o ranavuottolo? Quest' uomo alto meno di un metro e mezzo, storpiato da una gobba anteriore e da una posteriore, con gli occhi sempre cisposi per una perenne oftalmia e con vari gravi problemi respiratori e cardiaci, che tuttavia continuava a inseguire i suoi sogni d' amore, di felicità, di piacere? Mai uno spregiatore della vita ne è stato più innamorato, mai un coraggioso e lucido analista della negatività della condizione umana è stato più coinvolto nei sentimenti, nelle passioni, nelle illusioni e delusioni che la identificano. Bene fa Giorgio Ficara, nell' introduzione all' edizione di Repubblica, a insistere, per i Canti, sul rapporto fra il poeta e la natura: un rapporto, direi, in definitiva adorante, che si rivela ovunque, in ogni abbandono lirico, in ogni incipit descrittivo, in ogni pur discreta fantasticheria. E attenzione: la presenza quasi ossessiva dei deittici (questo, quello, qui, là, quinci, quindi.) rivela una necessità di contestualizzazione troppo esibita e ribadita per non essere profondamente reale. Se Leopardi parla della natura, tiene sempre a sottolineare che non sta parlando di qualcosa di astratto, di appartenente al dominio del pensiero, bensì di qualcosa che vede e sente, che si offre ai suoi occhi ammalati e che lui avidamente registra. E una fame inesausta di godimento e di pienezza vitale, una strenua rivendicazione del diritto alla vita, la molla più autentica della sua scrittura: una molla che confligge clamorosamente con «l' infinita vanità del tutto», con i vari «è funesto a chi nasce il dì natale», «a me la vita è male», «beata/ se te d' ogni dolor morte risana»; e che tuttavia rimane la chiave più autentica della grandezza assoluta di una poesia che spera in quanto dispera, e dispera in quanto spera: quella grandezza che ognuno di noi, al di là di antologie scolastiche e manuali, non può, se sia minimamente consapevole di sé, non riconoscerle. - STEFANO GIOVANARDI



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