EVA CANTARELLA
Matrimonio e sessualità nella Roma repubblicana:
una storia romana di amore coniugale
Matrimonio e sessualità nella Roma repubblicana:
una storia romana di amore coniugale
(tratto da Eva Cantarella, Passato Prossimo. Donne Romane da Tacita a Sulpicia, Milano, Feltrinelli, 2006)
La storia di cui parlerò è quella di un matrimonio romano. Per la precisione, il matrimonio tra Catone il Giovane e Marzia, rimasto celebre nei secoli e ricordato da Dante come un modello di vita coniugale. A Catone, infatti, Dante fa dire, di se stesso, che «quante grazie (Marzia) volse da me, fei». Un marito che cedeva al minimo desiderio della moglie, insomma: perché mai Dante così lo rappresentasse è difficile dire.
La storia di Catone e Marzia fu, certamente, una storia di straordinaria devozione coniugale: ma altrettanto certamente, non dalla parte di Catone. Se questo matrimonio fu celebre nell’antichità e continua ad esserlo, è piuttosto per la arrendevolezza dimostrata da Marzia quando nel suo matrimonio –per volontà di Catone– entrò e giocò un ruolo determinante un terzo uomo, il retore Ortensio. Come racconta, tra gli altri, Appiano (De bellis civilibus Romanorum, 2, 14, 99): Catone aveva sposato Marzia, la figlia di Filippo, quando era ancora molto giovane; era molto attaccato a lei, e da lei aveva avuto dei figli. Tuttavia, la diede a Ortensio, uno dei suoi amici, che desiderava avere figli ma che era sposato a una donna sterile. Dopo che Marzia ebbe dato un figlio anche a lui, Catone la riprese di nuovo in casa, come se l’avesse prestata.
Negli ultimi anni ho avuto modo di discutere questa storia in molte occasioni. (...). Storia singolare, a prima vista. Ma che cessa di apparire tale, se la si considera alla luce della mentalità del tempo. Il proposito delle pagine che seguono è –appunto– quello di mostrare che, se la si analizza alla luce dei concetti di matrimonio e di sessualità coniugale dell’epoca, la vicenda non suscita eccessiva meraviglia. Agli occhi dei romani che vivevano sul finire dell’età repubblicana, il fatto che un marito cedesse la propria moglie a un amico perché questi potesse avere figli da lei non era un comportamento né eccentrico né sconveniente: quantomeno, non appariva tale agli occhi delle famiglie della élite, cui i protagonisti della nostra storia appartenevano. E forse, come vedremo, neppure agli occhi del ceto che oggi definiremmo “medio”.
A ben vedere, infatti, cedere la moglie a un amico a fini procreativi non era una pratica eccezionale (anche se, certamente, neppure diffusissima). Non solo: salvo in casi –come, appunto, quello di cui ci occuperemo, che per motivi politici davano luogo a una certa sensazione– cedere la moglie a scopi procreativi rientrava in un’ottica civica che i romani non solo comprendevano, ma apprezzavano: tra i doveri del cittadino, infatti, stava in primo luogo quello di garantire la riproduzione del corpo cittadino.
Per dimostrare questa ipotesi, il testo che segue sarà diviso in tre parti. La prima parte esaminerà i dettagli della vicenda, i commenti dei romani e le interpretazioni degli studiosi moderni. La seconda parte cercherà di contestualizzare la storia, analizzando la concezione romana del matrimonio e della procreazione alla luce delle norme giuridiche e delle valutazioni sociali dell’epoca. La terza parte cercherà di spiegare la storia di Catone, Marzia e Ortensio alla luce di queste norme e di queste valutazioni.
A ben vedere, infatti, cedere la moglie a un amico a fini procreativi non era una pratica eccezionale (anche se, certamente, neppure diffusissima). Non solo: salvo in casi –come, appunto, quello di cui ci occuperemo, che per motivi politici davano luogo a una certa sensazione– cedere la moglie a scopi procreativi rientrava in un’ottica civica che i romani non solo comprendevano, ma apprezzavano: tra i doveri del cittadino, infatti, stava in primo luogo quello di garantire la riproduzione del corpo cittadino.
Per dimostrare questa ipotesi, il testo che segue sarà diviso in tre parti. La prima parte esaminerà i dettagli della vicenda, i commenti dei romani e le interpretazioni degli studiosi moderni. La seconda parte cercherà di contestualizzare la storia, analizzando la concezione romana del matrimonio e della procreazione alla luce delle norme giuridiche e delle valutazioni sociali dell’epoca. La terza parte cercherà di spiegare la storia di Catone, Marzia e Ortensio alla luce di queste norme e di queste valutazioni.
I dettagli della storia
La descrizione più lunga e dettagliata della storia di Catone, Marzia e Ortensio si trova in Plutarco (Cato minor, 25, 4-9) (...).
Tra i numerosi seguaci e ammiratori di Catone ce n’erano alcuni più illustri di altri e fra costoro Quinto Ortensio, uomo di ottima fama e di buon carattere. Egli desiderava essere qualcosa di più di un compagno per Catone e voleva stringere con lui un vincolo di parentela così da legare le loro famiglie e le loro casate; perciò cercò di persuaderlo a dargli in sposa la figlia Porcia, benché costei fosse già moglie di Bibulo e avesse avuto con lui due figli, quasi che volesse anch’egli seminare in quella fertile terra. Sosteneva che se pure una cosa del genere può apparire strana, dal punto di vista della natura è cosa giusta e giovevole alla collettività che una donna in pieno fiore non resti inattiva fino allo spegnimento della sua capacità generatrice, senza con ciò infastidire ed impoverire la propria casa, generando più figli di quanti sia giusto. Inoltre, se uomini di valore hanno comuni discendenti, la loro virtù si accresce e si comunica a questi e lo stesso Stato si amalgama per via
delle parentele. In ogni caso, qualora Bibulo fosse troppo attaccato alla moglie, Ortensio assicurava che l’avrebbe restituita subito non appena gli avesse dato un figlio, legandolo così, per il fatto di avere figli in comune, tanto a Catone che allo stesso Bibulo.Catone rispose che provava grande affetto per Ortensio, e che gli sarebbe piaciuto che vi fosse fra loro un vincolo di parentela, ma gli pareva fuor di luogo che gli si chiedesse in sposa la figlia già maritata ad un altro. Ortensio allora cambiò discorso e chiese apertamente in moglie la sposa di Catone, che era ancora abbastanza giovane per avere dei figli, visto che Catone aveva già la certezza di una propria discendenza. A Ortensio, dunque, non bastava essere semplicemente amico di Catone. Voleva stringere con lui rapporti di parentela e quando Catone rifiutò di concedergli in moglie sua figlia Porzia,2 dunque, non pensò neppure ad arrendersi: se Catone non voleva dargli sua figlia, perché non gli dava sua moglie? Singolarmente, ai nostri occhi, Catone non respinse la richiesta; dopo essersi consultato con Filippo, suo suocero, che si dichiarò favorevole, accolse la richiesta. Cosa pensasse Marzia della situazione non viene detto: per quanto ne sappiamo, la sua opinione non venne neppur richiesta.
La descrizione più lunga e dettagliata della storia di Catone, Marzia e Ortensio si trova in Plutarco (Cato minor, 25, 4-9) (...).
Tra i numerosi seguaci e ammiratori di Catone ce n’erano alcuni più illustri di altri e fra costoro Quinto Ortensio, uomo di ottima fama e di buon carattere. Egli desiderava essere qualcosa di più di un compagno per Catone e voleva stringere con lui un vincolo di parentela così da legare le loro famiglie e le loro casate; perciò cercò di persuaderlo a dargli in sposa la figlia Porcia, benché costei fosse già moglie di Bibulo e avesse avuto con lui due figli, quasi che volesse anch’egli seminare in quella fertile terra. Sosteneva che se pure una cosa del genere può apparire strana, dal punto di vista della natura è cosa giusta e giovevole alla collettività che una donna in pieno fiore non resti inattiva fino allo spegnimento della sua capacità generatrice, senza con ciò infastidire ed impoverire la propria casa, generando più figli di quanti sia giusto. Inoltre, se uomini di valore hanno comuni discendenti, la loro virtù si accresce e si comunica a questi e lo stesso Stato si amalgama per via
delle parentele. In ogni caso, qualora Bibulo fosse troppo attaccato alla moglie, Ortensio assicurava che l’avrebbe restituita subito non appena gli avesse dato un figlio, legandolo così, per il fatto di avere figli in comune, tanto a Catone che allo stesso Bibulo.Catone rispose che provava grande affetto per Ortensio, e che gli sarebbe piaciuto che vi fosse fra loro un vincolo di parentela, ma gli pareva fuor di luogo che gli si chiedesse in sposa la figlia già maritata ad un altro. Ortensio allora cambiò discorso e chiese apertamente in moglie la sposa di Catone, che era ancora abbastanza giovane per avere dei figli, visto che Catone aveva già la certezza di una propria discendenza. A Ortensio, dunque, non bastava essere semplicemente amico di Catone. Voleva stringere con lui rapporti di parentela e quando Catone rifiutò di concedergli in moglie sua figlia Porzia,2 dunque, non pensò neppure ad arrendersi: se Catone non voleva dargli sua figlia, perché non gli dava sua moglie? Singolarmente, ai nostri occhi, Catone non respinse la richiesta; dopo essersi consultato con Filippo, suo suocero, che si dichiarò favorevole, accolse la richiesta. Cosa pensasse Marzia della situazione non viene detto: per quanto ne sappiamo, la sua opinione non venne neppur richiesta.
Porzia, che in seconde nozze sposò l’assassino di Cesare, Bruto, dopo la morte di questi venne celebrata come la più eroica delle vedove. Quando Bruto venne ucciso a Filippi, infatti, Porzia decise di suicidarsi, e vi riuscì, nonostante ogni sforzo dei familiari per impedirglielo. Avendo costoro nascosto tutte le possibili armi di cui ella avrebbe potuto servirsi, Porzia ricorse a un mezzo estremo, e pose fine ai suoi giorni mangiando carboni ardenti, cfr. Marziale, Epigrammi, I, 42; Valerio Massimo, Factotum et dictorum memorabilium, IV, 6, 5.118. Sappiamo solo che sposò Ortensio, gli diede due figli, e quando Ortensio morì (al momento del matrimonio aveva circa cinquant’anni), risposò Catone.
Ovviamente, essendo Catone e Ortensio due importanti personaggi pubblici, la questione ebbe una certa risonanza. Nelle scuole di retorica ci si esercitava discutendo an Cato recte Marciam Hortensio tradiderit (se Catone si sia comportato bene nel Marcia a Ortensio) o conveniatne res talis bono vir (se un simile comportamento sia conveniente, per un uomo dabbene).3 E da Plutarco (Cato minor, 52, 5-7) sappiamo che Cesare criticò Catone: Ortensio aveva lasciato Marzia erede, al momento della morte. Per questa ragione, Cesare accusò Catone di essere avido e di trafficare con i matrimoni: perché –egli chiese– Catone lasciò a un altro sua moglie, se la voleva, e perché, se non la voleva, la riprese con sé, se non perché la donna venne usata da lui come un’esca per Ortensio, a cui egli la cedette quando era giovane per riprendersela ricca?
Ma Cesare, notoriamente, era un avversario politico di Catone. E comunque non criticò Catone per aver ceduto Marzia. Criticò le ragioni per le quali secondo lui l’aveva ripresa alla morte di Ortensio. Per finire, va detto che la sua critica non era condivisa: Plutarco, ad esempio, scrive che rinfacciare a Catone un sordido amore per il guadagno è come accusare Eracle di vigliaccheria, e che Catone si riprese Marzia perché «aveva bisogno di qualcuno che badasse alla casa e alle figlie».4 Il che sembra più che plausibile: subito dopo il nuovo
matrimonio, in effetti, come Plutarco ricorda, Catone lasciò Roma per andare a combattere con Pompeo. E Strabone, per spiegare il suo comportamento, addusse precedenti etnologici.
Per quanto possiamo capire, insomma, nell’antichità il comportamento di Catone venne discusso e talvolta anche criticato: ma solo con riferimento alle ragioni che lo determinarono, non per il fatto in sé di aver ceduto sua moglie a un amico. Le vere perplessità, a ben vedere, vengono dai commentatori moderni. La relazione di Catone e Marzia è così lontana dalla morale sessuale odierna che chi se ne è occupato ha in genere cercato di spiegarla come una peculiarità, per non dire una vera e propria stranezza legata al carattere o alle convinzioni
personali dei suoi protagonisti.
Una prima spiegazione in questa prospettiva venne proposta anni fa da Gordon: il comportamento di Catone e di Marzia, così come quello di Ortensio, si spiegherebbe considerando l’età e la personalità dei personaggi che, ormai adulti, avevano superato il romanticismo dell’età giovanile e concepivano il matrimonio esclusivamente come un’istituzione volta alla riproduzione dei cittadini. Spiegazione assai debole, in verità: che lo scopo del matrimonio fosse la riproduzione dei cittadini era convinzione generale dei romani, vecchi e giovani. Ma credere che lo scopo del matrimonio sia la riproduzione dei cittadini non comporta la necessità di cedere la propria moglie a un amico. Più credibile di quella ora citata (anche se a mio parere non convincente)
è l’interpretazione secondo la quale, essendo uno stoico, Catone avrebbe applicato i principi del suo credo filosofico, secondo i quali le donne, fatte per generare, dovevano essere comuni e accessibili a tutti. Ma io credo che la storia coniugale di Catone si spieghi senza bisogno di scomodare le sue convinzioni filosofiche. Essa si spiega, molto più semplicemente, alla luce delle norme giuridiche e sociali che regolavano il matrimonio e la procreazione. La storia nel suo contesto: come i romani intendevano matrimonio e procreazione Negli ultimi decenni, soprattutto negli Stati Uniti, gli studiosi di storia sociale romana hanno prospettato e sostenuto una nuova interpretazione della famiglia e del matrimonio romano. Questa non sarebbe stata –come la dottrina tradizionale la ha prevalentemente presentata– un gruppo di persone accomunate dalla subordinazione al potere autoritario di un paterfamilias, i cui esorbitanti contenuti è del tutto superfluo ricordare. Secondo l’ipotesi sostenuta con particolare impegno da Richard Saller, essa sarebbe stata invece simile alla moderna famiglia nucleare. Secondo Saller, infatti, nonostante i patresfamilias avessero sui figli poteri così estesi da non essere molto diversi, nei fatti, da quelli sugli schiavi (beninteso, salva la transitorietà della condizione dei filii familias), gli adulti sottoposti a patria potestas sarebbero stati troppo pochi per costituire un reale problema. Inoltre, i padri, sin dalle origini della storia romana, avrebbero trattato molto diversamente figli e schiavi, rispettando l’individualità e la dignità dei figli. Di conseguenza, la familia (composta da un numero limitato di persone, e ben diversa dalla grande famiglia patriarcale), sarebbe stata un gruppo legato da vincoli non di dipendenza gerarchica, ma da affetto e solidarietà. Un’ipotesi indiscutibilmente interessante, che –anche se contestata da alcuni autori– ha avuto notevole fortuna, soprattutto negli Stati Uniti, e ha fortemente influenzato gli studi successivi: come dimostra, per tutti, il libro Roman Marriage di Susan Treggiari, chedescrive il rapporto coniugale (quantomeno dal punto di vista ideologico)come una relazione personale forte e affettiva, e il matrimonioe la scelta del coniuge come decisioni molto spesso lasciate alle personeche si sposavano, anche se alieni iuris.
Ovviamente, essendo Catone e Ortensio due importanti personaggi pubblici, la questione ebbe una certa risonanza. Nelle scuole di retorica ci si esercitava discutendo an Cato recte Marciam Hortensio tradiderit (se Catone si sia comportato bene nel Marcia a Ortensio) o conveniatne res talis bono vir (se un simile comportamento sia conveniente, per un uomo dabbene).3 E da Plutarco (Cato minor, 52, 5-7) sappiamo che Cesare criticò Catone: Ortensio aveva lasciato Marzia erede, al momento della morte. Per questa ragione, Cesare accusò Catone di essere avido e di trafficare con i matrimoni: perché –egli chiese– Catone lasciò a un altro sua moglie, se la voleva, e perché, se non la voleva, la riprese con sé, se non perché la donna venne usata da lui come un’esca per Ortensio, a cui egli la cedette quando era giovane per riprendersela ricca?
Ma Cesare, notoriamente, era un avversario politico di Catone. E comunque non criticò Catone per aver ceduto Marzia. Criticò le ragioni per le quali secondo lui l’aveva ripresa alla morte di Ortensio. Per finire, va detto che la sua critica non era condivisa: Plutarco, ad esempio, scrive che rinfacciare a Catone un sordido amore per il guadagno è come accusare Eracle di vigliaccheria, e che Catone si riprese Marzia perché «aveva bisogno di qualcuno che badasse alla casa e alle figlie».4 Il che sembra più che plausibile: subito dopo il nuovo
matrimonio, in effetti, come Plutarco ricorda, Catone lasciò Roma per andare a combattere con Pompeo. E Strabone, per spiegare il suo comportamento, addusse precedenti etnologici.
Per quanto possiamo capire, insomma, nell’antichità il comportamento di Catone venne discusso e talvolta anche criticato: ma solo con riferimento alle ragioni che lo determinarono, non per il fatto in sé di aver ceduto sua moglie a un amico. Le vere perplessità, a ben vedere, vengono dai commentatori moderni. La relazione di Catone e Marzia è così lontana dalla morale sessuale odierna che chi se ne è occupato ha in genere cercato di spiegarla come una peculiarità, per non dire una vera e propria stranezza legata al carattere o alle convinzioni
personali dei suoi protagonisti.
Una prima spiegazione in questa prospettiva venne proposta anni fa da Gordon: il comportamento di Catone e di Marzia, così come quello di Ortensio, si spiegherebbe considerando l’età e la personalità dei personaggi che, ormai adulti, avevano superato il romanticismo dell’età giovanile e concepivano il matrimonio esclusivamente come un’istituzione volta alla riproduzione dei cittadini. Spiegazione assai debole, in verità: che lo scopo del matrimonio fosse la riproduzione dei cittadini era convinzione generale dei romani, vecchi e giovani. Ma credere che lo scopo del matrimonio sia la riproduzione dei cittadini non comporta la necessità di cedere la propria moglie a un amico. Più credibile di quella ora citata (anche se a mio parere non convincente)
è l’interpretazione secondo la quale, essendo uno stoico, Catone avrebbe applicato i principi del suo credo filosofico, secondo i quali le donne, fatte per generare, dovevano essere comuni e accessibili a tutti. Ma io credo che la storia coniugale di Catone si spieghi senza bisogno di scomodare le sue convinzioni filosofiche. Essa si spiega, molto più semplicemente, alla luce delle norme giuridiche e sociali che regolavano il matrimonio e la procreazione. La storia nel suo contesto: come i romani intendevano matrimonio e procreazione Negli ultimi decenni, soprattutto negli Stati Uniti, gli studiosi di storia sociale romana hanno prospettato e sostenuto una nuova interpretazione della famiglia e del matrimonio romano. Questa non sarebbe stata –come la dottrina tradizionale la ha prevalentemente presentata– un gruppo di persone accomunate dalla subordinazione al potere autoritario di un paterfamilias, i cui esorbitanti contenuti è del tutto superfluo ricordare. Secondo l’ipotesi sostenuta con particolare impegno da Richard Saller, essa sarebbe stata invece simile alla moderna famiglia nucleare. Secondo Saller, infatti, nonostante i patresfamilias avessero sui figli poteri così estesi da non essere molto diversi, nei fatti, da quelli sugli schiavi (beninteso, salva la transitorietà della condizione dei filii familias), gli adulti sottoposti a patria potestas sarebbero stati troppo pochi per costituire un reale problema. Inoltre, i padri, sin dalle origini della storia romana, avrebbero trattato molto diversamente figli e schiavi, rispettando l’individualità e la dignità dei figli. Di conseguenza, la familia (composta da un numero limitato di persone, e ben diversa dalla grande famiglia patriarcale), sarebbe stata un gruppo legato da vincoli non di dipendenza gerarchica, ma da affetto e solidarietà. Un’ipotesi indiscutibilmente interessante, che –anche se contestata da alcuni autori– ha avuto notevole fortuna, soprattutto negli Stati Uniti, e ha fortemente influenzato gli studi successivi: come dimostra, per tutti, il libro Roman Marriage di Susan Treggiari, chedescrive il rapporto coniugale (quantomeno dal punto di vista ideologico)come una relazione personale forte e affettiva, e il matrimonioe la scelta del coniuge come decisioni molto spesso lasciate alle personeche si sposavano, anche se alieni iuris.
Ma io non credo che questa immagine della famiglia romana risponda a realtà, o quantomeno non credo risponda a una realtà generalizzata. Per capire il matrimonio romano dobbiamo decisamente sbarazzarci del nostro modo di intendere il matrimonio, la coppia e l’amore coniugale. A Roma, le norme giuridiche e sociali non consentivano neppure il formarsi, in questo campo, di concetti paragonabili ai nostri. Come è troppo noto per dovervisi soffermare, il matrimonio romano era profondamente diverso da quello moderno. Non solo quando era accompagnato dalla conventio in manum (o si identificava con questa: non è certo questa la sede per entrare nella vexata quaestio), le mogli –al di là di ogni considerazione sulla struttura del matrimonio– erano sottoposte, a meno che non fossero sui iuris, a un potere personale maschile assai forte che aveva effetti determinanti sulla loro vita coniugale: forse e soprattutto, direi, quando questo potere, in costanza di matrimonio, continuava a spettare al paterfamilias originario.
Come è quasi troppo noto per doverlo ricordare, infatti, tra i poteri spettanti al paterfamilias rientrava quello di interrompere il matrimonio dei figli. Come sorprendersene, del resto, ben sapendo che per tutto il periodo classico e fino all’inizio del III secolo d.C., il matrimonio era basato sul consenso permanente non solo degli sposi, ma se questi erano alieni iuris, anche dei loro patresfamilias? Leggiamo in un notissimo passo di Paolo che il matrimonio non può aver luogo senza il consenso di tutti coloro che sono coinvolti, ossia di coloro che si uniscono in matrimonio e di coloro al potere dei quali essi sono sottomessi (nuptias consistere non possunt nisi consentiant omnes, id est qui coeunt quorumque in protestate sunt). E i Tituli ex corpore Ulpiani confermano: il matrimonio è legittimo se entrambi acconsentono e sono giuridicamente autonomi, o anche i loro padri, qualora si trovino ad essere sottoposti alla loro potestà (Iustum matrimonium est si … utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in protestate sunt). Se il padre cambiava idea, insomma, poteva interrompere il matrimonio del figlio, o più spesso, nella prassi, della figlia (abducere filiam). E i padri continuarono a esercitare questo potere, quantomeno fino al II secolo d.C. Alcuni papiri dell’Egitto romano, infatti, provano chiaramente che in quell’epoca alcune figlie si ribellarono ai padri, che rifiutavano di vedere i loro poteri divenire tali solo sulla carta, e continuavano a pretendere di decidere del destino dei figli adulti. E alcune di queste figlie riuscirono a contrastare la volontà paterna. Nel 186 d.C., a Ossirinco, una certa Dionisia, nel chiedere al magistrato locale di impedire a suo padre di interrompere il suo matrimonio, rafforzò la sua richiesta richiamando due casi risalenti a circa trenta anni prima in cui i magistrati avevano accolto petizioni analoghe alla sua.16 Ma è superfluo dire che i precedenti, nel diritto romano, pur essendo molto importanti, non erano vincolanti. Il principio che un figlio avesse il diritto di decidere autonomamente della sua vita privata faticava ad affermarsi. Nel III secolo d.C. a favore dei padri che volevano interrompere il matrimonio dei figli, era ancora in uso l’interdictum de liberis ducendis: o, quantomeno sappiamo che alcuni padri tentavano ancora di farvi ricorso. Leggiamo infatti in Digesto 43, 30, 1, 5 (Ulpianus, 71 ad edictum): Se qualcuno vuol portar via sua figlia, che è unita a me in matrimonio, o vuole che essa sia a lui esibita, può essere concessa un’eccezione contro l’interdetto, qualora il padre voglia dissolvere un matrimonio concorde, magari anche consolidato da figli? È certa regola di diritto che i matrimoni realmente concordi non debbono essere turbati dall’esercizio della patria potestà. Ciò si deve ottenere persuadendo il padre a non esercitare aspramente il suo potere. E sappiamo anche che alcuni padri ancora nel IV secolo continuavano pervicacemente a tentare di abducere filiam. Un papiro egiziano del 312 d.C., infatti, riporta la petizione di un marito costretto a rivolgersi ai magistrati locali per riavere la moglie che gli era stata sottratta dal suocero.17 E i magistrati decisero che il caso doveva essere risolto secondo il desiderio della donna: ma siamo già nel 312 d.C.
Come è quasi troppo noto per doverlo ricordare, infatti, tra i poteri spettanti al paterfamilias rientrava quello di interrompere il matrimonio dei figli. Come sorprendersene, del resto, ben sapendo che per tutto il periodo classico e fino all’inizio del III secolo d.C., il matrimonio era basato sul consenso permanente non solo degli sposi, ma se questi erano alieni iuris, anche dei loro patresfamilias? Leggiamo in un notissimo passo di Paolo che il matrimonio non può aver luogo senza il consenso di tutti coloro che sono coinvolti, ossia di coloro che si uniscono in matrimonio e di coloro al potere dei quali essi sono sottomessi (nuptias consistere non possunt nisi consentiant omnes, id est qui coeunt quorumque in protestate sunt). E i Tituli ex corpore Ulpiani confermano: il matrimonio è legittimo se entrambi acconsentono e sono giuridicamente autonomi, o anche i loro padri, qualora si trovino ad essere sottoposti alla loro potestà (Iustum matrimonium est si … utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in protestate sunt). Se il padre cambiava idea, insomma, poteva interrompere il matrimonio del figlio, o più spesso, nella prassi, della figlia (abducere filiam). E i padri continuarono a esercitare questo potere, quantomeno fino al II secolo d.C. Alcuni papiri dell’Egitto romano, infatti, provano chiaramente che in quell’epoca alcune figlie si ribellarono ai padri, che rifiutavano di vedere i loro poteri divenire tali solo sulla carta, e continuavano a pretendere di decidere del destino dei figli adulti. E alcune di queste figlie riuscirono a contrastare la volontà paterna. Nel 186 d.C., a Ossirinco, una certa Dionisia, nel chiedere al magistrato locale di impedire a suo padre di interrompere il suo matrimonio, rafforzò la sua richiesta richiamando due casi risalenti a circa trenta anni prima in cui i magistrati avevano accolto petizioni analoghe alla sua.16 Ma è superfluo dire che i precedenti, nel diritto romano, pur essendo molto importanti, non erano vincolanti. Il principio che un figlio avesse il diritto di decidere autonomamente della sua vita privata faticava ad affermarsi. Nel III secolo d.C. a favore dei padri che volevano interrompere il matrimonio dei figli, era ancora in uso l’interdictum de liberis ducendis: o, quantomeno sappiamo che alcuni padri tentavano ancora di farvi ricorso. Leggiamo infatti in Digesto 43, 30, 1, 5 (Ulpianus, 71 ad edictum): Se qualcuno vuol portar via sua figlia, che è unita a me in matrimonio, o vuole che essa sia a lui esibita, può essere concessa un’eccezione contro l’interdetto, qualora il padre voglia dissolvere un matrimonio concorde, magari anche consolidato da figli? È certa regola di diritto che i matrimoni realmente concordi non debbono essere turbati dall’esercizio della patria potestà. Ciò si deve ottenere persuadendo il padre a non esercitare aspramente il suo potere. E sappiamo anche che alcuni padri ancora nel IV secolo continuavano pervicacemente a tentare di abducere filiam. Un papiro egiziano del 312 d.C., infatti, riporta la petizione di un marito costretto a rivolgersi ai magistrati locali per riavere la moglie che gli era stata sottratta dal suocero.17 E i magistrati decisero che il caso doveva essere risolto secondo il desiderio della donna: ma siamo già nel 312 d.C.
Il matrimonio romano, insomma, era una scelta familiare su cui pesavano interessi economici, aspettative e ambizioni sociali delle due famiglie che combinavano le nozze. E questo non poteva non avere conseguenze sui rapporti coniugali. Anche in un matrimonio felice, non era affatto detto che la coppia fosse unita da quello che oggi chiamiamo amore, vale a dire da un amore di tipo romantico o passionale. Il che non significa, naturalmente, che i matrimoni d’amore non esistessero. Significa che l’amore coniugale nulla aveva a che fare con il romanticismo e la passione: era un affetto che non doveva causare turbamenti, come inevitabilmente fa la passione. Era un sentimento che si supponeva si sviluppasse solo dopo le nozze, non prima di queste, come del resto chiaramente indica l’espressione sopra incontrata «bene concordantia matrimonia». Un matrimonio felice era un matrimonio in cui vi era comunanza di intenti, accordo e comprensione. Questo si chiedeva, questo ci si aspettava dal matrimonio. I romani non si sposavano per amore, nel senso moderno del termine. Il matrimonio era dettato da considerazioni pratiche, e la sua funzione principale era la procreazione, peraltro desiderata non necessariamente e non solo come soddisfazione di un desiderio individuale di paternità o di maternità. A quanto pare, infatti, i romani non avevano (o non avevano più, sul finire della Repubblica) un simile desiderio. Il calo delle nascite –anche se certamente, dovuto a un insieme di cause, troppo complesse per essere qui discusse– era un fenomeno serio che preoccupava da tempo le autorità. Come è ben noto, la legislazione matrimoniale augustea tentò di contrastare questa tendenza e di costringere i cittadini romani in età fertile a sposarsi. La riproduzione, insomma, era percepita (e imposta) come un dovere civico. I romani, certamente, procreavano anche perché volevano avere una discendenza legittima, onde evitare l’estinzione della famiglia: ma non solo per questo, e soprattutto non in primo luogo per questo. La ragione principale e prima del matrimonio era la necessità (e il dovere civico) di generare cittadini. Di nuovo Catone e Marzia
Questo, dunque, il contesto in cui si inserisce la vicenda di Catone e Marzia. Un contesto noto, che era peraltro indispensabile ricordare per tentare di collocare nella giusta prospettiva il loro comportamento. Alla luce del perdurante potere paterno di interrompere i matrimoni dei figli, in primo luogo, la richiesta di Ortensio di sposare Porzia appare assolutamente normale. Probabilmente Porzia aveva contratto con Bibulo un matrimonio sine manu, e quindi era ancora sotto la potestà di Catone. Se questi rifiutò la richiesta dell’amico per ragioni politiche o per amore paterno non è questione rilevante. Quel che rileva è che la richiesta di Ortensio era socialmente e giuridicamente accettabile.
E veniamo alla seconda richiesta di Ortensio: la mano di Marzia. Di fronte a questa richiesta, Catone chiese il consenso del suocero Filippo: anche il matrimonio tra Marzia e Catone, probabilmente, era sine manu. La persona che aveva il potere di interrompere il matrimonio di Marzia con Catone, quindi, era Filippo cui spettava anche il potere, se credeva, di darla successivamente in moglie a Ortensio. Se questi non si rivolse direttamente a lui, come avrebbe potuto, preferendo passare attraverso l’intermediazione di Catone, fu probabilmente in considerazione della sua grande ammirazione per l’Uticense di cui voleva il consenso preventivo. E Catone, evidentemente disposto a concederlo, interpellò il suocero non per cortesia, ma perché era tenuto a farlo. Era Filippo che doveva abducere filiam.
Questo, dunque, il contesto in cui si inserisce la vicenda di Catone e Marzia. Un contesto noto, che era peraltro indispensabile ricordare per tentare di collocare nella giusta prospettiva il loro comportamento. Alla luce del perdurante potere paterno di interrompere i matrimoni dei figli, in primo luogo, la richiesta di Ortensio di sposare Porzia appare assolutamente normale. Probabilmente Porzia aveva contratto con Bibulo un matrimonio sine manu, e quindi era ancora sotto la potestà di Catone. Se questi rifiutò la richiesta dell’amico per ragioni politiche o per amore paterno non è questione rilevante. Quel che rileva è che la richiesta di Ortensio era socialmente e giuridicamente accettabile.
E veniamo alla seconda richiesta di Ortensio: la mano di Marzia. Di fronte a questa richiesta, Catone chiese il consenso del suocero Filippo: anche il matrimonio tra Marzia e Catone, probabilmente, era sine manu. La persona che aveva il potere di interrompere il matrimonio di Marzia con Catone, quindi, era Filippo cui spettava anche il potere, se credeva, di darla successivamente in moglie a Ortensio. Se questi non si rivolse direttamente a lui, come avrebbe potuto, preferendo passare attraverso l’intermediazione di Catone, fu probabilmente in considerazione della sua grande ammirazione per l’Uticense di cui voleva il consenso preventivo. E Catone, evidentemente disposto a concederlo, interpellò il suocero non per cortesia, ma perché era tenuto a farlo. Era Filippo che doveva abducere filiam.
Consideriamo ora il risvolto psicologico della vicenda. Alla luce della concezione del matrimonio sopra accennata, il fatto che Catonefosse disponibile a “cedere” Marzia a Ortensio non appare più cosa straordinaria, e tantomeno sconveniente. All’interno di una simileconcezione, benché l’adozione esistesse e ad essa si facesse ampioricorso, non stupisce eccessivamente che i romani, a volte, quandovolevano un figlio, si cedessero le donne.A ben vedere, questa pratica comportava parecchi vantaggi: per cominciare, come dice esplicitamente Ortensio nel discorso con ilquale cerca di convincere Catone a dargli in moglie Porzia, essa dava la possibilità di stabilire alleanze sociali e politiche attraversouna “comunione di figli”. In secondo luogo, cedere la moglie a unamico (nelle forme di cui sopra) serviva a razionalizzare la crescita della popolazione. La città aveva bisogno che le capacità riproduttive delle donne fertili venissero sfruttate al massimo, ma se una donna dava troppi figli allo stesso marito rischiava di mettere in pericolo il benessere economico familiare. Come Ortensio disse esplicitamente, infatti, secondo la legge di natura è una cosa giusta e onorevole per lo stato che una donna nel fiore della sua giovinezza e bellezza non debba né spegnere il suo potere riproduttivo rimanendo inattiva, né, generando più figli del necessario, gravare e impoverire un marito che non li vuole. Insomma: cedere a un nuovo marito la donna che aveva generato al primo marito un numero sufficiente di figli era cosa buona sia dal punto di vista familiare sia dal punto di vista civico. Il solo svantaggio di questa pratica, rispetto all’adozione, era che l’adozione garantiva una discendenza in modo immediato e sicuro. Sposare una donna fertile, invece, benché la probabilità fosse alta, non dava risultati altrettanto certi. Ma i romani avevano trovato un modo per garantire questi risultati: si cedevano le donne quando erano già incinte. Come fece Catone, appunto: l’aspetto più interessante della vicenda, infatti –che viene generalmente passato sotto silenzio– è che Marzia, quando venne data a Ortensio, era incinta di Catone. Come scrive Plutarco: «non si può dire che Ortensio fece ciò [scil. chiese la mano di Marzia] perché sapeva che Catone la trascurava: al tempo infatti, come sappiamo, la donna era kuousa (incinta)». Di nuovo, dobbiamo ripetere l’avvertimento già dato: sbarazziamoci delle nostre idee cerchiamo di entrare nella mentalità romana.Quel che per noi è certamente singolare, lo era assai meno per i romani. Ai quali, infatti, accadeva di “far circolare” le mogli incinte. Nell’81 a.C., ad esempio, Emilia era incinta quando fu costretta a divorziare da suo marito e a sposare Gneo Pompeo. A costringerla, nella specie, era stato Silla che, sposato in quarte nozze con la madre di Emilia, Metella, si era sempre comportato come padre di Emilia. Ma il caso più famoso –quasi superfluo dirlo– è quello di Livia, la moglie di Augusto. Quando fu data in moglie a Ottaviano, nel 38 a.C., Livia era sposata con Tiberio Claudio Nerone, e dopo aver dato alla luce Tiberio era incinta di Druso. In verità, anche questo fu un caso che fece discutere. Due brevi passi di Tacito suggeriscono che Augusto avesse imposto con la forza la sua volontà e Svetonio, nella vita di Augusto, scrive che Augusto abduxit Liviam. Ma nella vita di Tiberio lo stesso Svetonio scrive che Nerone concessit sua moglie tunc gravidam. L’idea di un’imposizione augustea, insomma, è un evidente tentativo, da parte di Tacito, di tratteggiare l’immagine di un principe-despota; ed è –comunque– in contrasto con le altre fonti. Quel che accadde, in realtà, fu che Nerone e Ottaviano si accordarono sul futuro di Livia: esattamente come avevano fatto Catone e Ortensio, quando avevano deciso il
futuro di Marzia.Erano forse, simili accordi, in contrasto con la mentalità o con il diritto romano? Dal punto di vista giuridico, nessuna regola proibiva il matrimonio con donne incinte. Secondo Augusto Fraschetti questi matrimoni sarebbero stati proibiti dai mores romani fino al momento in cui la donna avesse partorito, come si potrebbe dedurre dal fatto che Ottaviano, prima di sposare Livia, chiese l’opinione dei pontifices. Ma Tacito dice che i pontifices risposero che il matrimonio era permesso se era possibile sapere chi fosse il padre del bambino, e aggiunge che questo era possibile in base a un antico mos. Né vale, a liberarsi della testimonianza di Tacito, asserire, come fa Fraschetti, che questo mos sarebbe venuto meno in età classica, come dimostrerebbero il tono e il commento di Tacito, secondo il quale il fatto sarebbe stato ludibrium: di nuovo, Tacito era un nemico politico di Augusto. E al di là di questo, come ben sappiamo, pochi anni prima di Livia, Marzia si era risposata
incinta, e nessuno, neppure tra i nemici di Catone, aveva detto che il suo matrimonio con Ortensio violava gli antichi mores. Così come non li violò il matrimonio di Livia e di Ottaviano. Al di là di ogni altra considerazione,
questo fu celebrato con il consenso di Nerone al quale le fonti attribuiscono addirittura un ruolo attivo nella celebrazione. Secondo Velleio Patercolo, infatti, Livia fu desponsa ad Augusto proprio da lui, e Dione Cassio scrive che Nerone diede Livia in moglie ad Augusto “come se fosse suo padre”. Esattamente come fece Catone con Marzia: anche Catone infatti era presente alle nozze della sua ex moglie con Ortensio.Vediamo di chiarire, a scanso di equivoci: dal punto di vista giuridico, la donna non veniva data in moglie dall’ex marito, bensì dal padre. La presenza dell’ex marito, quando la sposa era incinta, era un fatto sociale: era il segno del suo consenso, la dimostrazione dell’accordo, la consacrazione di un’alleanza che univa non due, ma ben tre
famiglie. La cessione della moglie incinta, insomma, non era un fatto eccezionale, non era una pratica riprovata: quantomeno non era tale tra i membri di famiglie appartenenti alla élite, come quelle cui appartenevano i protagonisti delle storie sopra citate. Ma dobbiamo ritenere, così stando le cose, che la cessione delle mogli avesse luogo solo tra queste famiglie?
Anche se, in effetti, è molto probabile che fosse assai più diffusa tra le classi alte, questo non toglie che le fonti serbino traccia di vicende analoghe anche in ambienti meno potenti e meno economicamente privilegiati. In un passo molto interessante e controverso delle vite di Licurgo e Numa, Plutarco scrive (Lycurgus-Numa, 3, 1): Con riferimento alla comunità di matrimonio e di parentela, entrambi (Licurgo e Numa), con una sana politica, convinsero i mariti a liberarsi da egoistiche gelosie. Tuttavia, i loro metodi non erano uguali. Se un marito romano aveva un numero sufficiente di figli da allevare, un altro, che non aveva figli, poteva convincerlo a lasciargli sua moglie, consegnandogliela a tutti gli effetti, o solo per una stagione; lo spartano, invece, mentre sua moglie rimaneva nella di lui casa e il matrimonio manteneva i suoi diritti e i suoi doveri originari, poteva permettere a chiunque ottenesse il suo consenso di dividere con lui sua moglie, al fine di generare figli da lei.
Ma le considerazioni più interessanti vengono dalle fonti giuridiche, che a differenza delle fonti storiche e delle altre fonti letterarie non registrano solo la vita dei “ricchi e potenti”, ma anche quelle dei comuni cittadini, la cui mentalità in materia di matrimonio e riproduzione traspare con evidenza da alcune disposizioni testamentarie. Conservate nel Digesto, infatti, alcune di queste disposizionimostrano dei mariti, del tutto sconosciuti, che –evidentemente preoccupati per il futuro delle loro future vedove– dispongono in modo che queste possano continuare a svolgere le loro funzioni riproduttive. Un primo, significativo esempio trovasi in Digesto 22, 1, 48
(Scevola, 22 digestorum): Un marito lasciò alla moglie l’usufrutto di un terzo e, nel caso avesse avuto anche dei figli, la piena proprietà di quella parte dell’eredità. Gli eredi accusarono la moglie di aver falsificato il testamento e di altri crimini, così da impedire l’acquisto del legato; poiché nel frattempo alla donna nacque un figlio, avverandosi così la condizione posta nel legato, alla domanda se, una volta rivelatosi autentico il testamento, si dovessero consegnare alla donna i frutti, Scevola rispose che si doveva.
Un marito –dunque– aveva lasciato l’usufrutto di un terzo dei suoi beni alla vedova, stabilendo che questa avrebbe ottenuto la proprietà di questo terzo se avesse avuto figli. A Roma, se ne deduce, esistevano mariti che, senza essere particolarmente ricchi, potenti o eccentrici, non volevano che le loro mogli, se rimanevano vedove in età ancora fertile, non utilizzassero le loro potenzialità riproduttive. Come sembra chiaramente mostrare un passo di Pomponio in materia di dote: «Preservare le doti delle donne è nell’interesse pubblico. È davvero necessario che le donne continuino ad avere una dote per procreare e per dare figli alla città» (Digesto 24, 3, 1 Pomponius, 15 ad Sabinum). Ovviamente, Pomponio si riferisce alle vedove e alle divorziate
che, senza dote, avrebbero avuto difficoltà a risposarsi, e quindi sarebbero venute meno al loro compito di procreare. Ma il caso più interessante è forse quello descritto in Digesto 35,1, 25 (Iulianus, 69 digestorum): Nel caso di un uomo, che lasci un fondo a sua moglie, alla condizione che essa abbia dei figli, se la donna, dopo il divorzio, genererà dei figli da un altro e quindi, sciolto il secondo matrimonio, ritornerà presso il primo marito, non si deve ritenere avverata la condizione posta nel testamento: poiché non è verosimile che il testatore abbia inteso trattarsi di figli generati da un altro nel corso della sua stessa esistenza. Un marito (siamo all’epoca di Adriano) lascia parte dei suoi beni alla moglie a condizione che si risposi e che generi figli a un nuovo marito. Senonché accade che il marito, dopo aver scritto questo testamento, divorzi dalla moglie, che si risposa e genera altri figli dal nuovo marito. Ma successivamente divorzia dal secondo marito e risposa il primo. Donde il problema: quando quest’ultimo muore, le condizioni poste nel testamento sono da considerare realizzate? Secondo Giuliano, cui il caso viene sottoposto, la condizione prevista dal marito nel testamento non si è verificata. La circostanza cui egli subordinava il lascito, infatti, era la sua moglie generasse figli dopo essere rimasta la sua vedova, non prima. Oltre a farci conoscere un altro marito preoccupato di evitare che la fertilità di sua moglie si spegnesse alla sua morte, il passo incuriosisce per altri motivi: una moglie divorzia da un marito, ha dei figli da un secondo marito, quindi risposa il primo. Non pretendo certo di avanzare un’ipotesi, ma è difficile tacere una suggestione: è possibile pensare che il secondo matrimonio fosse stato concordato, tra i due uomini, per consentire al secondo marito di avere dei figli, con l’intesa che, una volta raggiunto lo scopo, la moglie ritornasse dal primo? In qualche modo, la storia fa pensare a quella di Catone, Ortensio e Marzia. Ma dimentichiamo le suggestioni e limitiamoci a quello che emerge con certezza dai testi. I mariti di cui ai casi sopra citati si preoccupavano, tutti, di predisporre condizioni favorevoli agli ulteriori matrimoni delle loro future
vedove. Non le cedevano ad altri in vita, come Catone. Ma l’idea che stava alla base delle loro disposizioni di ultima volontà era la stessa che ispirava chi cedeva la propria moglie a un amico: ogni donna doveva sfruttare al massimo le sue potenzialità riproduttive. Sembra quasi che le donne capaci di avere figli fossero considerate una “specie protetta”, che il diritto si era incaricato di aiutare, o talvolta di obbligare a svolgere il suo compito. E a conferma di questa sensazione interviene il riferimento ad alcune regole sui poteri che spettavano al marito sulla moglie incinta (venter). Come è ben noto, se divorziava dalla moglie mentre questa era incinta, il marito aveva il diritto di chiedere la nomina di un curator (o custos) ventris, incaricato di controllare che la donna non avrebbe provocato un aborto.Ma ciò che maggiormente colpisce è che la custodia ventris non era solo nell’interesse del marito. Era nell’interesse di questi, nell’interesse della famiglia e nell’interesse della città, come chiaramente dimostrato dalle norme imposte alla vedova incinta dall’Editto del praetor urbanus. Come leggiamo in Digesto 25, 4, 1, era a questo magistrato che spettava il controllo del venter della divorziata: era a lui che toccava interrogare la donna sulla sua gravidanza; se la donna rifiutava di rispondere, era a lui che spettava il potere di forzarla all’obbedienza, pignorando i suoi beni o imponendole una multa (Digesto 25, 4, 1, 3); se la donna negava di essere incinta, era sempre a lui che toccava nominare le ostetriche incaricate di accertare il suo stato (Digesto 25, 4, 1, 4-5). Se una vedova dichiarava di essere incinta, inoltre, il pretore era
incaricato di controllare come procedeva la gravidanza e di assicurare che il parto avesse luogo in un ambiente sicuro, alla presenza di persone che garantivano da ogni rischio di eventuali supposizioni o sostituzioni. Per finire, era sempre il pretore che, se il padre non aveva indicato la persona alla quale il figlio doveva essere affidato, o se questa persona rifiutava l’incarico, provvedeva causa cognita a indicare un sostituto e imponeva a costui di mostrare il neonato un certo numero di volte al mese, appartenente al suo ufficio, anche se non è da escludere che fosse la madre a beneficiare di questa concessione (Digesto 25, 4, 1, 10). La gravidanza, insomma, non era una questione solo privata; e non era neppure una questione solo familiare. Era una questione di stato. In questa prospettiva, non è strano che cedere la moglie incinta non fosse sconvolgente per i romani. Era una pratica che aveva dei vantaggi per il marito, dei vantaggi per le due famiglie coinvolte, e infine e soprattutto dei vantaggi per lo stato. E le donne –si direbbe– accettavano questa pratica, nel senso che consideravano normale essere cedute dal marito a un altro uomo, o –in una situazione speculare– essere rimpiazzate da un’altra donna, se non erano in grado di adempiere al loro dovere. Come mi sembra dimostri un celeberrimo elogio funebre, quello di Turia.
In un anno compreso tra l’8 e il 2 a.C. Turia morì, e suo marito, ripercorrendo la storia del loro matrimonio, così celebrò le sue virtù: Desideravamo dei figli, che un destino malevolo ci negò. Se la sorte ci avesse soddisfatto, cosa ci sarebbe mancato? Ma con il passare del tempo, le nostre speranze svanirono …. Sconsolata per la tua sterilità, e soffrendo per la mia mancanza di prole, affinché, continuando a tenerti come moglie, io non rinunziassi alla speranza di avere dei figli, hai parlato di divorzio, offrendoti di lasciare la casa vuota alla fecondità di un’altra donna, senza altra idea che quella di cercarmi e di procurarmi tu stessa una sposa degna del nostro reciproco affetto: i cui figli, tu assicurasti, avresti trattato come figli comuni …. Non vi sarebbe stata nessun cambiamento, nessuna separazione, da quel momento tu avresti avuto nei miei confronti l’affetto e la devozione di una sorella o di una amica. In verità, i dettagli della vicenda non sono facili a comprendere: cosa intende dire Turia quando afferma che nulla cambierà, e che considererà i figli della nuova donna come “comuni”? Esplicitamente, afferma che continuerà a essere devota al marito anche se non sarà più
sua moglie: allude forse a una condizione temporanea? Gli prospetta, forse, la possibilità di avere una nuova moglie solo fino al momento in cui questa non gli darà un erede e di risposare poi lei, Turia, che considererà il figlio dell’altra come suo? Impossibile dare una riposta sicura, ma una cosa è fuori discussione: pensando di non essere fertile, Turia offre al marito la possibilità di avere figli da un’altra donna. In questo caso, il marito rifiuta l’offerta: come afferma candidamente nell’epitaffio, non vuole cambiare certa dubiis. Non vuol correre rischi, insomma. Per anni Turia era stata la migliore delle mogli. Nulla garantiva che la nuova moglie fosse altrettanto perfetta. Ma questo non fa che rendere la vicenda più interessante, dal nostro punto di vista: le mogli romane, a volte, superavano persino le (non poche) aspettative dei loro mariti, in fatto di devozione. E i mariti apprezzavano questo loro oltranzismo, se così vogliamo chiamarlo: sotto lo sdegno con il quale il marito di Turia dichiara di avere declinato l’offerta traspare, in realtà, l’orgoglioso compiacimento di chi ha ricevuto la suprema prova d’amore. Ma torniamo all’atteggiamento di Turia. Pur diversa da quella di Marzia, la sua storia esprime il medesimo atteggiamento, rivela la medesima mentalità: anche Turia accetta senza riserve il suo ruolo di riproduttrice. Esattamente come Marzia, alla cui storia è ora giunto il momento di tornare. Ricordando gli eventi seguiti alla morte di Ortensio, Lucano scrive: Il sole dissipava le gelide ombre, quando alla porta venne a bussare Marzia veneranda Marzia, piangente per Ortensio, il cui sepolcro aveva appena lasciato. […] E così parlò, mesta: finché vi era in me ancora sangue, finché vi era forza materna, Catone, ho fatto quel che mi hai ordinato, Catone. Ho avuto due mariti e ho dato loro dei figli. Ora torno con il ventre stanco, esausta dai parti, non più in grado di essere ceduta a un altro uomo. Concedimi di rinnovare i casti legami del primo letto; dammi il nome soltanto di moglie; che sia lecito scrivere sulla mia tomba: “Marzia, moglie di Catone”. Naturalmente il racconto è frutto dell’immaginazione di Lucano, gli eventi sono chiaramente drammatizzati. Ma è evidente che la scena doveva sembrare plausibile ai romani che leggevano il poema: per loro, l’attaccamento di Marzia a Catone era comprensibile; per loro non era sorprendente che una moglie ceduta ad altri desiderasse tornare ad essere moglie del primo marito. Analizzando la storia di Marzia e la pratica di cedere donne fertili Yan Thomas, ha scritto che i romani avevano inventato una forma di adozione prenatale. Io andrei oltre, e suggerirei che avevano inventato la maternità surrogata. Naturalmente, a modo loro. Ma, come scrive Leslie Poles Hartley, dobbiamo sempre ricordare che «il passato è un paese straniero: si fanno le cose in un modo diverso, là».
Un marito –dunque– aveva lasciato l’usufrutto di un terzo dei suoi beni alla vedova, stabilendo che questa avrebbe ottenuto la proprietà di questo terzo se avesse avuto figli. A Roma, se ne deduce, esistevano mariti che, senza essere particolarmente ricchi, potenti o eccentrici, non volevano che le loro mogli, se rimanevano vedove in età ancora fertile, non utilizzassero le loro potenzialità riproduttive. Come sembra chiaramente mostrare un passo di Pomponio in materia di dote: «Preservare le doti delle donne è nell’interesse pubblico. È davvero necessario che le donne continuino ad avere una dote per procreare e per dare figli alla città» (Digesto 24, 3, 1 Pomponius, 15 ad Sabinum). Ovviamente, Pomponio si riferisce alle vedove e alle divorziate
che, senza dote, avrebbero avuto difficoltà a risposarsi, e quindi sarebbero venute meno al loro compito di procreare. Ma il caso più interessante è forse quello descritto in Digesto 35,1, 25 (Iulianus, 69 digestorum): Nel caso di un uomo, che lasci un fondo a sua moglie, alla condizione che essa abbia dei figli, se la donna, dopo il divorzio, genererà dei figli da un altro e quindi, sciolto il secondo matrimonio, ritornerà presso il primo marito, non si deve ritenere avverata la condizione posta nel testamento: poiché non è verosimile che il testatore abbia inteso trattarsi di figli generati da un altro nel corso della sua stessa esistenza. Un marito (siamo all’epoca di Adriano) lascia parte dei suoi beni alla moglie a condizione che si risposi e che generi figli a un nuovo marito. Senonché accade che il marito, dopo aver scritto questo testamento, divorzi dalla moglie, che si risposa e genera altri figli dal nuovo marito. Ma successivamente divorzia dal secondo marito e risposa il primo. Donde il problema: quando quest’ultimo muore, le condizioni poste nel testamento sono da considerare realizzate? Secondo Giuliano, cui il caso viene sottoposto, la condizione prevista dal marito nel testamento non si è verificata. La circostanza cui egli subordinava il lascito, infatti, era la sua moglie generasse figli dopo essere rimasta la sua vedova, non prima. Oltre a farci conoscere un altro marito preoccupato di evitare che la fertilità di sua moglie si spegnesse alla sua morte, il passo incuriosisce per altri motivi: una moglie divorzia da un marito, ha dei figli da un secondo marito, quindi risposa il primo. Non pretendo certo di avanzare un’ipotesi, ma è difficile tacere una suggestione: è possibile pensare che il secondo matrimonio fosse stato concordato, tra i due uomini, per consentire al secondo marito di avere dei figli, con l’intesa che, una volta raggiunto lo scopo, la moglie ritornasse dal primo? In qualche modo, la storia fa pensare a quella di Catone, Ortensio e Marzia. Ma dimentichiamo le suggestioni e limitiamoci a quello che emerge con certezza dai testi. I mariti di cui ai casi sopra citati si preoccupavano, tutti, di predisporre condizioni favorevoli agli ulteriori matrimoni delle loro future
vedove. Non le cedevano ad altri in vita, come Catone. Ma l’idea che stava alla base delle loro disposizioni di ultima volontà era la stessa che ispirava chi cedeva la propria moglie a un amico: ogni donna doveva sfruttare al massimo le sue potenzialità riproduttive. Sembra quasi che le donne capaci di avere figli fossero considerate una “specie protetta”, che il diritto si era incaricato di aiutare, o talvolta di obbligare a svolgere il suo compito. E a conferma di questa sensazione interviene il riferimento ad alcune regole sui poteri che spettavano al marito sulla moglie incinta (venter). Come è ben noto, se divorziava dalla moglie mentre questa era incinta, il marito aveva il diritto di chiedere la nomina di un curator (o custos) ventris, incaricato di controllare che la donna non avrebbe provocato un aborto.Ma ciò che maggiormente colpisce è che la custodia ventris non era solo nell’interesse del marito. Era nell’interesse di questi, nell’interesse della famiglia e nell’interesse della città, come chiaramente dimostrato dalle norme imposte alla vedova incinta dall’Editto del praetor urbanus. Come leggiamo in Digesto 25, 4, 1, era a questo magistrato che spettava il controllo del venter della divorziata: era a lui che toccava interrogare la donna sulla sua gravidanza; se la donna rifiutava di rispondere, era a lui che spettava il potere di forzarla all’obbedienza, pignorando i suoi beni o imponendole una multa (Digesto 25, 4, 1, 3); se la donna negava di essere incinta, era sempre a lui che toccava nominare le ostetriche incaricate di accertare il suo stato (Digesto 25, 4, 1, 4-5). Se una vedova dichiarava di essere incinta, inoltre, il pretore era
incaricato di controllare come procedeva la gravidanza e di assicurare che il parto avesse luogo in un ambiente sicuro, alla presenza di persone che garantivano da ogni rischio di eventuali supposizioni o sostituzioni. Per finire, era sempre il pretore che, se il padre non aveva indicato la persona alla quale il figlio doveva essere affidato, o se questa persona rifiutava l’incarico, provvedeva causa cognita a indicare un sostituto e imponeva a costui di mostrare il neonato un certo numero di volte al mese, appartenente al suo ufficio, anche se non è da escludere che fosse la madre a beneficiare di questa concessione (Digesto 25, 4, 1, 10). La gravidanza, insomma, non era una questione solo privata; e non era neppure una questione solo familiare. Era una questione di stato. In questa prospettiva, non è strano che cedere la moglie incinta non fosse sconvolgente per i romani. Era una pratica che aveva dei vantaggi per il marito, dei vantaggi per le due famiglie coinvolte, e infine e soprattutto dei vantaggi per lo stato. E le donne –si direbbe– accettavano questa pratica, nel senso che consideravano normale essere cedute dal marito a un altro uomo, o –in una situazione speculare– essere rimpiazzate da un’altra donna, se non erano in grado di adempiere al loro dovere. Come mi sembra dimostri un celeberrimo elogio funebre, quello di Turia.
In un anno compreso tra l’8 e il 2 a.C. Turia morì, e suo marito, ripercorrendo la storia del loro matrimonio, così celebrò le sue virtù: Desideravamo dei figli, che un destino malevolo ci negò. Se la sorte ci avesse soddisfatto, cosa ci sarebbe mancato? Ma con il passare del tempo, le nostre speranze svanirono …. Sconsolata per la tua sterilità, e soffrendo per la mia mancanza di prole, affinché, continuando a tenerti come moglie, io non rinunziassi alla speranza di avere dei figli, hai parlato di divorzio, offrendoti di lasciare la casa vuota alla fecondità di un’altra donna, senza altra idea che quella di cercarmi e di procurarmi tu stessa una sposa degna del nostro reciproco affetto: i cui figli, tu assicurasti, avresti trattato come figli comuni …. Non vi sarebbe stata nessun cambiamento, nessuna separazione, da quel momento tu avresti avuto nei miei confronti l’affetto e la devozione di una sorella o di una amica. In verità, i dettagli della vicenda non sono facili a comprendere: cosa intende dire Turia quando afferma che nulla cambierà, e che considererà i figli della nuova donna come “comuni”? Esplicitamente, afferma che continuerà a essere devota al marito anche se non sarà più
sua moglie: allude forse a una condizione temporanea? Gli prospetta, forse, la possibilità di avere una nuova moglie solo fino al momento in cui questa non gli darà un erede e di risposare poi lei, Turia, che considererà il figlio dell’altra come suo? Impossibile dare una riposta sicura, ma una cosa è fuori discussione: pensando di non essere fertile, Turia offre al marito la possibilità di avere figli da un’altra donna. In questo caso, il marito rifiuta l’offerta: come afferma candidamente nell’epitaffio, non vuole cambiare certa dubiis. Non vuol correre rischi, insomma. Per anni Turia era stata la migliore delle mogli. Nulla garantiva che la nuova moglie fosse altrettanto perfetta. Ma questo non fa che rendere la vicenda più interessante, dal nostro punto di vista: le mogli romane, a volte, superavano persino le (non poche) aspettative dei loro mariti, in fatto di devozione. E i mariti apprezzavano questo loro oltranzismo, se così vogliamo chiamarlo: sotto lo sdegno con il quale il marito di Turia dichiara di avere declinato l’offerta traspare, in realtà, l’orgoglioso compiacimento di chi ha ricevuto la suprema prova d’amore. Ma torniamo all’atteggiamento di Turia. Pur diversa da quella di Marzia, la sua storia esprime il medesimo atteggiamento, rivela la medesima mentalità: anche Turia accetta senza riserve il suo ruolo di riproduttrice. Esattamente come Marzia, alla cui storia è ora giunto il momento di tornare. Ricordando gli eventi seguiti alla morte di Ortensio, Lucano scrive: Il sole dissipava le gelide ombre, quando alla porta venne a bussare Marzia veneranda Marzia, piangente per Ortensio, il cui sepolcro aveva appena lasciato. […] E così parlò, mesta: finché vi era in me ancora sangue, finché vi era forza materna, Catone, ho fatto quel che mi hai ordinato, Catone. Ho avuto due mariti e ho dato loro dei figli. Ora torno con il ventre stanco, esausta dai parti, non più in grado di essere ceduta a un altro uomo. Concedimi di rinnovare i casti legami del primo letto; dammi il nome soltanto di moglie; che sia lecito scrivere sulla mia tomba: “Marzia, moglie di Catone”. Naturalmente il racconto è frutto dell’immaginazione di Lucano, gli eventi sono chiaramente drammatizzati. Ma è evidente che la scena doveva sembrare plausibile ai romani che leggevano il poema: per loro, l’attaccamento di Marzia a Catone era comprensibile; per loro non era sorprendente che una moglie ceduta ad altri desiderasse tornare ad essere moglie del primo marito. Analizzando la storia di Marzia e la pratica di cedere donne fertili Yan Thomas, ha scritto che i romani avevano inventato una forma di adozione prenatale. Io andrei oltre, e suggerirei che avevano inventato la maternità surrogata. Naturalmente, a modo loro. Ma, come scrive Leslie Poles Hartley, dobbiamo sempre ricordare che «il passato è un paese straniero: si fanno le cose in un modo diverso, là».
Eva Cantarella, Docente di Diritto romano e Diritti dell’antichità,
Università di Milano.
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