lunedì 16 novembre 2009

Introduzione al Paradiso

Incontri sulla Commedia di Dante
con la prof.ssa Anna Maria Chiavacci Leonardi
(Università di Pisa)
Paradiso

Da una lezione tenuta presso il Liceo "Giuseppe Parini", Milano

Nelle prime due mattine ho dato un’introduzione generale, senza fermarmi subito sulla Cantica, e so che voi ormai siete esperti, essendo ormai al terzo anno dello studio di Dante; comunque cerchiamo di dare anche qui un minimo di introduzione per entrare poi subito nel merito della terza Cantica, che naturalmente dà il senso a tutto il resto: se si tralascia il Paradiso la Divina Commedia non ha più senso, non lo hanno l’Inferno né il Purgatorio, sarebbe una casa senza coperchio, diciamo così, una strada senza fine; è proprio il Paradiso quello, in qualche modo, da cui comincia l'idea di tutto il Poema.

Nei giorni scorsi si è accennato alla grande diffusione mondiale di questo libro, il che appunto sembra una cosa strana, data la differenza e lontananza di tutte le culture che pure lo leggono con grande entusiasmo: vietnamiti, coreani, giapponesi -lì c'è una scuola addirittura di dantismo - pakistani... Non c'è lingua -che abbia una cultura- dove non sia stato tradotto il poema di Dante. Non solo letto, ma letto come un contemporaneo con cui confrontarsi, con cui discutere, di cui si sente in qualche modo appunto la contemporaneità. E si osservava che ciò dipende quasi sicuramente dal fatto che, a differenza degli altri grandi poemi dell'umanità, dei classici di Omero, Virgilio, etc., porta con sé, esprime potremmo dire, con grande arte come tutti sanno, l'identità stessa della civiltà del nostro Occidente, di quella civiltà europea costruita con grande lentezza nel Medioevo, assorbendo in sé la tradizione greco-romana ed ebraico-cristiana.

La Commedia è nata, come sapete, proprio sulla fine dell'età medievale quando si era compiuto questo periodo di fusione. Tale civiltà è ancora quella che nel mondo è conosciuta, ed è, ormai, egemone nel mondo, e porta con sé quei valori che riguardano soprattutto l'uomo, la sua dignità, i suoi diritti -i famosi diritti umani della Carta che quasi tutti i popoli hanno sottoscritto- quei valori che reggono in fondo la società civile oggi: il valore dell'uomo, potremmo dire la qualità razionale dell'universo da cui sono possibili tutte le scienze; che ci siano delle leggi che regolano l'universo: e qui la ragione umana, la quale può quindi conoscerlo; di qui nascono tutte le scienze e tutta la tecnologia. E dai diritti dell'uomo nasce ciò che regge la società appunto civile.

Da questa contemporaneità, appunto, l'interesse profondo di tutti i popoli di tutte le lingue per questo testo che però vince, avvince, attira, per cui poi uno casca nella rete di Dante per la grande umanità che lo pervade. E' la passione per l'uomo che Dante ha e che lui conosce, in tutte le sue sfumature, nei sentimenti più delicati come in quelli più feroci, come appare dalle storie che lui ci racconta, e tutti si è attratti da questo: il sorriso della madre verso il bambino, come la ferocia dell'uomo che tradisce o che uccide. I gesti anche dell'uomo, il sorriso, l'abbraccio fraterno, tutti i gesti sono visti nella Commedia con una partecipazione, un'attenzione straordinaria.

Attraverso questo rapporto di Dante con l'uomo, appunto, passa quella corrente che travolge, in qualche modo, che attrae tutti dentro la sua rete. Ma questa attenzione d'amore all'uomo ha una sua origine: quell'idea del mondo, dell'universo e dell'uomo dentro l'universo che è propria di Dante: la grande dignità della creatura umana in questo mondo, quest'uomo libero, unico essere libero nelle leggi del cosmo, e immortale; quest'uomo che vive nella storia, ma non finisce la sua vita nella storia. Questo racconta la Commedia, e soltanto l'idea del viaggio nell'aldilà già dice questo. L'invenzione di Dante di raccontare l'aldilà è il modo per cui dare, e far capire, un senso alla vita dell'al di qua. Nell'aldilà tutti gli uomini di Dante -quelli con i quali parla, che noi incontriamo- vedono la propria vita, la raccontano in parte, ma la vedono appunto da un'altra riva, quindi possono misurarne il senso e il valore. Questo aldilàdà significato di fatto alla storia: fuori dalla storia, da una sponda che la oltrepassa, si può misurare e dare un significato e un valore alla storia stessa.

Quindi non ha niente a che fare, l'aldilà di Dante, con i racconti di visioni che pure erano diffusi nel Medioevo, che avevano un valore largamente e modestamente pedagogico, di spaventare con gli orrori dell'inferno, d'invogliare con i paradisi; i quali paradisi -per entrare nel nostro tema- erano tutti paradisi terreni: cioè descrivevano delizie, giardini bellissimi, luoghi di piacere; magari piacere elevato, raffinato quanto volete, ma sempre luoghi della terra. Queste sono le visioni che noi abbiamo; non c'era l'idea che Dante invece ha: forse l'unico, anzi senz'altro l'unico, che abbia tentato di affrontare, di rappresentare questo aldilà non come un duplicato della terra, ma [come un luogo] che avesse una vera dimensione oltre-temporale. Questa è la sfida della terza Cantica. Certo la terza Cantica non ha quella immediata, facile attrattiva che hanno le altre due, dove uno ritrova se stesso: l'uomo dell'Inferno, l'uomo del Purgatorio è uno di tutti noi. Ma è molto difficile il Paradiso, perché Dante stesso ha accettato questa sfida di rappresentare un mondo, questo terzo regno, questo aldilà, che è appunto oltre il tempo, oltre la storia, fuori dalle categorie che a noi sono conosciute: un mondo spirituale. Questa grande sfida del Paradiso certo ha creato una grande poesia, ma difficile. Questo non vuol dire che non si debba godere, ma, come dicevo sempre ai miei studenti, anche la musica di Bach è difficile; non è che tu, se ad un giovane o ad un vecchio che sia, che finora ha sentito solo canzonette, gli fai sentire un brano di Bach, subito s'entusiasmi: spesso non lo capisce o si annoia. Tutte le cose molto grandi sono difficili, però hanno anche un grande, grande fascino. Una volta che uno, insomma, si fa coraggio per affrontare anche questa difficoltà, dopo viene ricompensato dalla grandezza, dalla bellezza di questo testo, come appunto dalla grande musica. Il paragone spesso aiuta a capire la musica del Paradiso: difficile, ma straordinariamente grande e bella. Ecco, Dante ha fatto questo tentativo di rappresentare qualcosa che non sarebbe rappresentabile; e questo è detto fin dal principio: è un mondo che oltrepassa in qualche modo l'esperienza dell'uomo, non è sperimentato sulla terra normalmente, come gli altri mondi che noi abbiamo visto, non è sperimentabile comunemente, non tutti i giorni; però c'è un'esperienza, sempre, dell'uomo, che è una esperienza del divino: su questo si fonda la terza Cantica; l'uomo ha dei barlumi forse, dei momenti, non tutti gli uomini possono averla, ma è data all'uomo, e quasi tutti hanno il minimo di esperienza di intravedere questa realtà suprema che l'oltrepassa [l’uomo, n.d.R]; tutti gli antichi popoli l'hanno intraveduto. Ecco, Dante dice fin da principio che è stato in un luogo di cui è difficile parlare: “e vidi cose che ridire/né sa né può chi di lassù discende” (Par. I, 5-6) , così è detto nel I Canto, che probabilmente voi avete letto. Allora che cosa dice, se non si può ridire quel che ha visto? Come fa a scrivere, a raccontare? Ecco, lui lo racconta, cioè ce lo spiega: è rimasto in lui qualcosa di questa visione, come un'ombra; e lo dice rivolgendosi ad Apollo, in quella invocazione classica che fa, come nei Poemi antichi, alle Muse; ma in questo caso Apollo naturalmente rappresenta qualcosa di più del dio pagano, è la poesia ispirata in questo caso da Dio stesso. Bene, lui chiede: “se mi ti presti/tanto che l'ombra del beato regno/segnata nel mio capo io manifesti” (Par. I, 23-24): cioè, che cosa è rimasto a lui? Qualcosa è rimasto di questa visione, non si può ridire, non si può raccontare, non si può però c'è qualcosa da raccontare, quest'ombra che è rimasta impressa “segnata” -dice- “nel mio capo”.

Nell'ultimo Canto, quando arriviamo alla fine, c'è come un cerchio che si chiude: si riprendono quasi le stesse parole dette nel I, e lui dice appunto che la sua visione svanisce, si allontana dalla mente, e “ancor mi distilla/nel core il dolce che nacque da essa” (Par. XXXIII, 62-3): questo è detto nell'ultimo del Paradiso. C'è qualcosa che è rimasto, questa impressione di dolcezza; e poi continua con tre immagini: “Così la neve al sol si disigilla;/così al vento ne le foglie levi/si perdea la sentenza di Sibilla” (Par. XXXIII, 64-6); ma c'èqualcosa, un'orma impressa, segnata, una specie di orma che è rimasta nel suo cuore, è questo che lui cercherà di trasmettere, appunto; “quant'io del regno santo/ne la mia mente potei far tesoro,/sarà ora materia del mio canto” (Par. I, 62-3) : ecco, lui ci dice fin da principio questa difficoltà; che però qualcosa è rimasto, e questo qualcosa lui ci darà. Lui ha tentato -come ha fatto del resto per gli altri due regni-, se li è inventati tutti lui, come si diceva in questi altri giorni, come è fatto l'Inferno, come è fatto il Purgatorio, anche fisicamente: non c'era una simile descrizione di questi aldilà, erano sempre vaghe; lui li ha creati in maniera precisa, e s'è inventato tutta la situazione, come poi vedremo; la cosa che preme a noi, [è che] ha inventato la situazione dell'uomo in questi mondi: che cosa pensa, qual è la sua psicologia, ognuno determinato nella sua storia. Ecco, lo stesso ha fatto in maniera molto difficile per il Paradiso: anche il Paradiso lui l'ha immaginato, l'ha inventato potremmo dire; e ha voluto creare un mondo dove ha rinunciato ai mezzi del poeta, quelli che ha sempre usato nell'Inferno e nel Purgatorio, cioè da una parte il paesaggio, lo sfondo che si può descrivere; sia il paesaggio infernale, vi ricordate, aspro, duro e sempre violento, molto assimilabile ai luoghi più orrendi della terra, sia il dolce paesaggio del Purgatorio di cui si parlava ieri, che è invece illuminato dal sole, sempre sereno, dove si trovano fiori, come la valletta fiorita dove stanno i principi negligenti, e così via. Ma qua Dante rinuncia al paesaggio, non crea un paesaggio del Paradiso: non c'è nulla, ci sono solo dei cieli, come voi sapete, salendo di cielo in cielo, ma sono vuoti questi cieli, non c'è un paesaggio; non solo, ma rifiuta… ha rinunciato a rappresentare la figura dell'uomo: infatti i personaggi del Paradiso non hanno corpo, sono solo luci. Questo chiedeva uno sforzo supremo della fantasia; immaginate un poeta privato dei suoi mezzi: come fa?, gli uomini beati sono solo luci fiammeggianti, i cieli sono vuoti, non c'è nulla da rappresentare; quindi uno sforzo supremo della fantasia, ma volutamente Dante si è privato di questi mezzi perché doveva appunto tentare di raffigurare un mondo oltre la storia, oltre l'umano, oltre il sensibile, un mondo spirituale. Allora lui ha usato l'unico corpo, quello che è più immateriale di tutti: la luce; e con la luce ha creato tutto il Paradiso, fino all'Empireo, come ora tra poco diremo, dove le cose cambiano all'improvviso. Dunque si sale in questo mondo dove non scorre il tempo -mentre nel Purgatorio, come si diceva ieri, si sottolinea questo sorgere e tramontare del sole che accompagna sempre i due viandanti, come sulla terra insomma; là il tempo non c'è, non c'è cammino, come Virgilio e Dante nell'Inferno e nel Purgatorio camminano, si affaticano a salire o a scendere per dirupi, per luoghi diversi, ma è sparita questa dimensione. Come si fa a passare da un cielo all'altro? Dante stesso lo dice: è solo guardando Beatrice che lui si accorge di essere passato nell'altro cielo, dalla maggior bellezza di lei, dalla maggior luce del cielo che li accoglie; tempo non c'è, lui dice infatti a un certo punto: “E’ Bëatrice quella che sì scorge (scorge vuol dire ci accompagna) /di bene in meglio, sì subitamente/che l'atto suo per tempo non si sporge” (Par. X, 37-9), cioè non si estende in una durata temporale perché il tempo è ormai oltrepassato. Questo mancare quindi di tutti i riferimenti terreni, come il tempo è così importante. E in questo mondo Dante fa incontrare, appunto come nell'Inferno e nel Purgatorio, gli spiriti beati; però anche qui la tipologia è diversa: questi spiriti sono nascosti ognuno nella loro luce, si annidano, come dice Dante, nella luce che li riveste, li avvolge, che è la luce della loro gloria, della loro vita paradisiaca. I beati si intravedono nei primi cieli, dove ancora Dante immagina che ci sia un minimo di ombra della terra che ancora resta, e quindi si può intravedere: voi ricorderete -chi ha letto il III Canto-, che nel cielo della luna dove sta Piccarda si intravedono questi volti, sembrano specchiati sembianti(Par. III, 20) , sembrano specchiati nell'acqua, ma ancora si possono intravedere queste sembianze umane, si vede appunto Piccarda che sorride. C’è questa lontana visione con quella bella immagine del volto riflesso nell'acqua, e Dante faticosamente finisce col riconoscere quel volto trasfigurato dalla bellezza divina. Dopo invece, questo si perde nei cieli superiori, non c'è più il volto umano; resta un unico volto che Dante si conserva, un unico appoggio nella salita che è il volto di Beatrice: è il suo conforto, perché non sa dove posare lo sguardo e il viso di Beatrice che lo accompagna è sempre illuminato dal sorriso. Ecco -questa è una cosa importante secondo me- l'unico gesto umano che Dante mantiene in tutta la salita del Paradiso fino all'Empireo è il sorriso che, come lui scriveva già nel Convivio -è una frase importante-: "e che è ridere se non una corruscazione (corruscare è quel tremolare, la luce tremolante) della dilettazione dell'anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo che sta dentro”? (questo è Convivio III, 8-11, se qualcuno volesse andarselo a vedere). Ma c'è anche il verbo "corruscare" che ritorna poi nel Paradiso a significare il sorriso, che è come l'espressione della dilettazione cioè della gioia dell'anima: è l'unico gesto -possiamo chiamarlo gesto insomma, anche se non è del tutto proprio- dell'uomo fisico, sensibile, del volto umano che si vede attraverso il Paradiso delle sfere finché si arriva all'Empireo. Questo sorriso appare poi, anche se non direttamente, nei visi; ma nei Beati, è spesso detto di loro che appaiono e si vede nella loro luce il sorriso interno; così è detto per esempio di Cacciaguida “chiuso e parvente del suo proprio riso” (Par. XVII, 36), cioè quella luce esterna è il sorriso che dentro fa l'uomo. E questa invenzione è una della tante, perché le invenzioni del Paradiso si moltiplicano, sono straordinarie. Però, tornando alla differenza importante, queste storie non sono più come quelle infernali o purgatoriali, cioè siamo qui su un'altra dimensione e le storie singole, private, degli uomini sono pochissime. Solo nei primi Cieli c'è ancora qualche storia come quella di Piccarda -appunto nel I Cielo-, che racconta in poche parole la sua storia, un po' come fanno le anime degli altri due Regni -c'è la breve storia di Romeo, c'è ancora la storia di Cunizza-; siamo sempre però nei primi Cieli, i famosi primi tre Cieli dove secondo l'astronomia tolemaica giungeva l'ombra della terra, ma poi altre storie non ce ne sono, perché qui non è più data importanza al ricordo della storia terrena. La diversità che Dante inventa è questa straordinaria concordia dei beati nella loro pace suprema, che consiste nell'identificazione della propria volontà con quella di Dio. Piccarda definisce praticamente la situazione delle anime del Paradiso con la terzina ben nota “E ’n la sua volontade è nostra pace:/ell’ è quel mare al qual tutto si move/ciò ch’ella crïa o che natura face” (Par. III, 85-7): nella volontà divina è la pace nostra dice lei, cioè la gioia e la pace di tutti i beati è concorde armonia, che appunto stride fortemente con la continua discordia dell'uomo terreno che è sempre in lite o in discordia con l'altro.

Le singole vicende sono come allontanate, allontanate nel tempo, perché ora si guarda piuttosto in avanti, cioè nella presenza eterna della gloria che li avvolge. Ci sono delle grandi storie nel proseguire del Paradiso: la grande storia di S. Francesco per esempio, come di S. Domenico -le due storie gemelle-; però il loro valore è diverso: sono grandi storie etiche, raccontate in senso profetico per rappresentare appunto, nella decadenza della Chiesa, questo uomo mandato da Dio a salvarla; e la storia di Francesco è un esempio, quindi ha un valore pubblico potremmo dire, non più di raccontare uno ricordando la propria vita, come fanno gli altri degli altri due Regni. C'è la grande storia dell'Impero narrata da Giustiniano, ma anche quella ha un altro valore pubblico e profetico come dicevo prima, mentre le singole sono via via allontanate sempre di più. E che cosa cresce, via via? Dante ha immaginato una crescita del vedere: cioè qui sono l'occhio e l'udito che contano, l'occhio vede, sempre di più e l'udito anche -i due sensi nobili in fondo, come si chiamavano dell'uomo-, che è appunto -come dire- irrorato continuamente, beneficato dalla musica, che fin dal principio si sente risuonare; musica quasi sempre corale, anzi direi sempre corale, dei beati, che appunto esprime questa concordia armoniosa, e dove Dante quasi sempre sottolinea la diversità delle voci; cioè quella che si chiama polifonia, che allora incominciava -io non mi intendo molto di musica, ma insomma, mi sono un po' informata-, cominciava allora questo canto polifonico che Dante amava moltissimo, come appare in vari luoghi del poema; e qui fa dire proprio ai beati questa definizione -che è appunto del canto polifonico che lui applica alla vita paradisiaca- “Diverse voci fanno dolci note”: ecco queste sono voci diverse che fanno una musica dolcissima “così diversi scanni in nostra vita/rendon dolce armonia tra queste rote” (Par. VI, 124-6). La diversità di ogni beato, la diversa gloria dell'uno dall'altro crea l'armonia, appunto; vedete questo paragone: Dante quasi sempre quando presenta cori o canti o musica del Paradiso accenna a questa diversità dei vari timbri delle varie diverse voci. E però quello che più conta è l'organo della vista: tutto il Paradiso è centrato sulla vista, non c'è altro, e appunto la luce è il suo corrispondente; e questa vista cresce sempre più, da una parte in visione sensibile, dall'altra, come scrivevo un tempo, in visione invece intellettuale, perché come tutti sapete via via nella cantica ogni tanto appaiono grandi discorsi, che di solito sono considerati noiosi, e sono quelli dei grandi eventi teologici che Dante racconta.

Su questo non abbiamo tempo di fermarci perché sarebbe un discorso lungo; tuttavia si può osservare che questi testi teologici raccontano non problemi logici ma eventi, eventi raccontabili quindi: ci sono degli attori, la creazione è un atto, è un gesto, la redenzione lo stesso, racconta la discesa del Verbo nella carne; sono eventi con attori, situazioni che si possono in qualche modo narrare: non c'è una discussione di carattere esclusivamente teorico, qui semplicemente si racconta.

Quali sono questi grandi gesti raccontati? La Creazione, la Redenzione -in quel Canto bellissimo che è il VII-; la Resurrezione, altro grande momento del Paradiso -il Canto XIV forse è uno dei più belli di tutto il Poema, che contiene appunto questo prezioso luogo, descrive la resurrezione dei corpi dei Beati all'ultimo giorno-; ecco questi grandi temi sono quelli che sempre tornano nella cantica, accanto alla visione invece più accessibile a tutti che è quella della bellezza dei Cieli delle loro luci.

Come fa Dante quindi a rappresentare questi luoghi dove c'è solo luce? Usa le similitudini. E' il mezzo più semplice, più diretto che ha il Poeta, e naturalmente su queste similitudini si costruisce poi la realtà visibile, sensibile. Per i Beati si usano tutte le similitudini. Quali similitudini? Cosa prende? Naturalmente dalla terra -l'unica cosa che l'uomo conosce- tutti gli aspetti del firmamento, sembra non [ne sia] saltato uno; quindi bisogna moltiplicare le differenze, e queste sono le mille differenze che offre la contemplazione del cielo, cielo che Dante certamente contemplava con amore e a lungo e ben conosceva. Infatti lui dice, in quella lettera famosa dove rinuncia a tornare a Firenze, dice: “beh io potrò, dovunque io sia, forse non potrò contemplare il cielo in qualunque luogo della terra io mi trovi”. Quando dolorosamente rinuncia a tornare a Firenze -perché ciò avrebbe comportato il riconoscersi colpevole come voleva la Repubblica Fiorentina (il Comune, la Signoria diciamo così di Firenze) per perdonarlo, dice: “absit a viro predicante iustitiam”, perché un uomo che predica la giustizia non può fare questo passo; dice piuttosto “preferisco restare fuori”: se queste sono le condizioni per cui Dante deve rientrare in Firenze, Dante in Firenze non rientrerà. E questo comportò dolore per lui, pene non piccole. Tuttavia adesso io mi rifacevo a questa lettera per ricordare questa sua consuetudine nella contemplazione del cielo.

Le similitudini del cielo, che sono straordinariamente belle, si moltiplicano per rappresentare i Beati: le prime [rappresentano] il primo salire delle stelle la sera (“E sì come al salir di prima sera/comincian per lo ciel nove parvenze,/sì che la vista pare e non par vera” (Par. XIV, 70-2)) questo salire delicato delle stelle; il plenilunio, quello è famosissimo, dove Trivia ride (“Quale ne’ plenilunïi sereni/Trivïa ride tra le ninfe etterne/che dipingon lo ciel per tutti i seni” (Par. XXIII, 25-7)). Ma si potrebbero moltiplicare. Gli aspetti del cielo sono la prima cosa. Poi anche per dipingere, per rappresentare gli atti dei Beati e anche il loro sentire, non avendo la figura dell'uomo, lui usa le similitudini; ma quali? E’ difficile; gli unici animali citati nel Paradiso sono gli uccelli, appunto perché volano, volano nel cielo liberi, leggeri, sono gli animali, per così dire più spirituali che ci siano; e ci sono queste bellissime similitudini tra le quali alcune notissime; ve ne ricorderò due: “Quale allodetta che ‘n aere si spazia/prima cantando, e poi tace contenta/de l'ultima dolcezza che la sazia (Par. XX, 73-5)”, cioè questa allodola che si alza nel cielo e poi tace come saziata dal suo stesso canto, contenta dell'ultima dolcezza che la sazia, tal mi sembrò appunto quello che lui vedeva nei Beati. L'altro paragone con l'uccello ci presenta un uccello alla mattina, all'alba, l'uccello-madre che aspetta ansiosamente il giorno per poter nutrire i propri figlioletti: “Come l'augello, intra l’amate fronde,/ posato al nido de’ suoi dolci nati/la notte che le cose ci nasconde”, e tutta le notte se ne sta vicino al nido dei suoi figlioletti, quando comincia il mattino “che, per veder li aspetti disïati/e per trovar lo cibo onde li pasca,/in che gravi labor li sono aggrati, previene il tempo in su aperta frasca”, cioè previene quasi il sorgere del sole, sale “l'aperta frasca” cioè sul ramo aperto in modo da poter vedere il sorgere del sole “fiso guardando pur che l'alba nasca (Par. XXIII, 1-9 passim)”: ecco questo è un uccello umanizzato, potremmo dire, è un uccello madre che è pieno di sentimenti umani. E questi sono i paragoni che Dante appunto sparge qua e là per la Cantica con gli uccelli.

L'ultimo paragone -diciamo l'ultimo perché nella scala abbiamo visto il cielo, abbiamo visto gli uccelli- l'ultimo è preso proprio dall'uomo; ma quale uomo? Il lattante. Dante usa il lattante -il bambino piccolissimo- proprio come termine di paragone per l'espressione di questi Beati che si volgono verso la gloria divina, come il lattante verso la madre. Questo è solo qualche cenno per dire come Dante sfrutta tutto quello che può di visibile, di comprensibile, sul piano umano, terreno, per rappresentarci questo aldilà. Ma poi -ecco l'ultimo momento- le cose cambiano all'entrata dell'Empireo. Come voi sapete dopo i Cieli tolemaici, dove gli sono presentati i vari Beati e Dante vede via via lo svolgersi dei vari momenti della storia, alla fine si entra nell'altro mondo, nel mondo divino fuori di ogni misura temporale e spaziale. In questo momento cambia anche la visione e in forma paradossale proprio in questo Cielo che è di pura luce, questa volta intellettuale, cioè assolutamente incorporea, qui appaiono i corpi, i corpi dei risorti.

Dunque nell'Empireo, dove cambia un po' la musica, la vera musica, si esce dal tempo e dallo spazio: con il Canto XXX Dante in un certo modo dà un vero cambiamento di rotta alla sua poesia. In quel momento lui si accorge che la bellezza di Beatrice è tale che lui non può più raffigurarla, e dice: “da quando l'ho vista in questa terra, dal primo giorno ch'io vidi il suo viso (come ancor oggi un innamorato potrebbe dire) ho sempre potuto rappresentare questa sua bellezza, ma ora è diventato per me impossibile”: “La bellezza ch'io vidi si trasmoda (=oltrepassa la misura)/non pur di là da noi, ma certo io credo/che solo il suo fattor tutta la goda” (Par. XXX, 19-21). Si entra cioè in un mondo dove ormai le cose umane, le misure umane sono oltrepassate; e qua che cosa appare all'occhio di Dante? ora tutto non possiamo descrivere, ma quello che conta è che lui vede di fronte a sé la grande visione dell'Empireo: una grande rosa candida, una candida rosa, dove sono i corpi dei Beati risorti. Cioè lui ha la visione dell'ultimo giorno -che ancora naturalmente non c'è stato, una visione anticipata, diciamo così-, e siamo fuori dal tempo, nell'eterno; ed è una cosa paradossale che proprio qui, dove si esce dal tempo e dallo spazio, qui si vedono i soli veri corpi della Commedia: gli altri, come si sa, sono fittizi, perché non ci sono di fatto, ancora non son risorti. Viceversa nell'Empireo già si vedono, con questa straordinaria visione dei corpi, finalmente, con questa rosa, che rappresenta la gloria dell'umanità dovuta appunto, secondo il cristianesimo, all'Incarnazione del Verbo che ha prodotto questa possibilità dell'uomo di partecipare alla vita stessa di Dio. E il tema del corpo risorto è carissimo a Dante: vi accenna più volte, al corpo sepolto dalla terra che un giorno appunto risplenderà nel Paradiso. C'è anche nell'inizio del Purgatorio, a Catone, quando Virgilio dice: “tu sai, vero, come è cara la libertà”, “ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara”, adesso sepolta in terra splenderà nel giorno della risurrezione. Più volte lungo il Paradiso Dante cerca di vedere i volti di quei Beati che incontra, ma non può; lo chiede anche a San Benedetto: “fammi vedere il tuo viso”, “che ti veggia con imagine scoperta”, tanto lui tiene al corpo dell'uomo, alla sua visibilità corporea; ma Benedetto dice che non è possibile, solo lassù nell'ultima sfera si adempirà questo tuo desiderio. Lo stesso quando incontra San Giovanni Evangelista: lui si sforza di vedere attraverso il fuoco, la fiamma che lo circonda, di vederne le sembianze umane, ma l'altro gli risponde: “ in terra, terra è il mio corpo”. Quindi c'è sempre questo tema del corpo sepolto, quel corpo che risplenderà nel giorno della resurrezione. Ora quassù di fatto i corpi si vedono e Dante però con grande…come dire… questa sua genialità poetica di inventare addirittura l'inventabile, non si ferma a descrivere così molto terrenamente questi corpi: sono solo vaghi accenni, vedeva visi “a carità soavi”, pochissimi leggeri accenni. Però c'è un'eccezione: ed è una sola, però basta a far capire che nulla è perduto dell'umanità in questi corpi beati, ed è Sant'Anna. San Bernardo indica a Dante alcuni nomi per far capire come è organizzata questa candida rosa e tra questi indica Sant'Anna, la madre -come forse sapete- di Maria, e dice: vedi Sant'Anna -le riserba questo- “tanto contenta di mirar sua figlia che non move occhio per cantare osanna”; cioè così gloriosa, felice di vedere la sua figliola in gloria che non muove l'occhio da lei pur continuando a cantare con gli altri. Questa annotazione così umana, della madre che guarda felice la propria figlia è una sola, però basta a capire che in questa gloria divina non si è perso nulla della determinazione storica dell'uomo, di quello che l'ha tenuto sulla terra, nei suoi affetti più cari; e quello che è detto in quelCanto che citavo prima -il XIV, della Resurrezione- quando, finito il discorso, tutti i Beati, felici, fanno un coro di gioia, Dante aggiunge una terzina singolare: “forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari anzi che fosser sempiterne fiamme”. Cioè smorzarono tutti il desiderio dei lori corpi morti, ma forse non tanto per se stessi ma per poter vedere le mamme, i padri, gli altri che furon cari in terra, e il solito Benvenuto che ho citato già ieri, il commentatore trecentesco, dice appunto: “desideravano vedere in carne quelli che amarono in carne”.

Quindi vedete l'importanza di questo corpo, che noi vediamo in terra e amiamo e che Dante dice che ritroveremo ancora: se sarà questo rapporto stabilito sulla terra non sarà toccato in nulla. E' molto importante, come vedete, per capire la posizione di Dante, che non manca mai a questa sua profonda umanità: fin lassù, dove sembra che tutto si perda in questa eternità divina, resta ogni tratto della nostra storia umana.

Ora l'ultima immagine dell'uomo che è data nell'Empireo, nella Commedia, non è tuttavia questa; c'è un ultimo momento, nell'ultimoCanto appunto, dove Dante resta solo: sparisce anche la rosa, sparisce l'ambiente che prima c'era, non c'è più nulla, c'è solo la persona di Dante davanti al raggio divino. Ecco, in questo ultimoCanto Dante cerca di penetrare -gli vengono in qualche modo mostrati- i grandi misteri del cristianesimo: la Trinità, con tre cerchi concentrici che lui cerca in qualche modo di descrivere, e l'Incarnazione. L'ultimo che lui vede è proprio questo: quello dell'Incarnazione del Verbo; cioè come vede, cosa vede? Tra i due tre cerchi lui ha l'impressione di vedere l'immagine dell'uomo, dice “dentro da sé, del suo colore stesso -nel secondo cerchio, cioè quello del Figlio - mi parve pinta de la nostra effigie”: la nostra effigie, l'immagine quindi dell'uomo, la figura umana; per cui lui si mette attentamente a cercar di capire come possa essere questo, “come si convenne l’imago al cerchio”, ma è come la quadratura del cerchio, è un problema che non si poteva risolvere: come il geometra, dice lui, che cerca di capire questo grande problema della quadratura del cerchio così io (e questo paragone è già stato fatto da altri nel medioevo, di questo mistero con questa difficoltà insolubile -tutt'oggi insolubile devo dire- della quadratura del cerchio). E Dante lascia questo mistero fino all'ultimo istante, in cui la sua mente è colpita da un fulgore e viene in qualche modo svelato il Mistero. Così chiude la Commedia: proprio con questa esaltazione suprema dell'uomo, dell'immagine dell'uomo, quindi il corpo dell'uomo, non solo lo spirito, che appare nella stessa figura divina della Trinità.

E qui mi fermo anch'io per lasciarvi il tempo di fare le vostre domande.



DOMANDE degli studenti

D- Vorrei sapere la sua opinione sulla profezia del Veltro.
R: non è proprio nel tema del Paradiso… ma comunque. Io l'ho detto, l'ho scritto varie volte: questo Veltro che Dante annuncia nell'Inferno, che è una sua speranza di questo personaggio che dovrebbe portare l'ordine, la pace nel mondo, ha, come sempre accade, due aspetti. Uno è una speranza concreta che certamente Dante ebbe in ArrigoVII: questo appare da molti dati -ora qui non è possibile elencare riscontri precisi- che ci fanno pensare a questo personaggio; del resto abbiamo le Epistole di Dante scritte in occasione della discesa d'Arrigo in Italia, dove dichiara chiaramente che lui spera in questa persona. Però c'è anche, dietro a questa prima interpretazione, un'altra che non viene meno, tant'è vero che una volta morto Arrigo e finita ogni speranza per Dante le cose non cambiano. E' morto Arrigo, ma la speranza in questo restauratore dell'ordine che verrà un giorno rimane fino alla fine del Purgatorio e poi nel Paradiso stesso. Allora qui è stato un grande studioso, Charles Davis, uno studioso americano di storia medioevale, anche dantista, che ha offerto -non è il solo, insomma, ma è quello che l'ha fatto in maniera più convincente- l'interpretazione del veltro dantesco come l'Imperatore degli ultimi tempi, degli ultimi giorni insomma, già profetizzato da vari autori profetici, che verrà un giorno quando finisce il tempo: ci sarà l'ultimo Augusto, che in un certo modo porrà in pace il mondo. Probabilmente dietro alla figura storica di Arrigo c'è la figura diciamo escatologica di questo ultimo Imperatore. E' l'idea in fondo utopica -che sempre c'è nell'umanità di questo momento [storico]- in cui il mondo sarà unificato, anche storicamente, non solo nell'aldilà; è un'idea che sempre è serpeggiata fra gli uomini, anche fra i grandi spiriti, le grandi utopie, ma che certamente corrisponde, come in Dante appare chiaro, all'idea che alla fine dei tempi -come del resto dice la Bibbia- “tutti i nemici saranno sconfitti”; quindi finiscono le discordie anche nella storia e ci sarà questa unità del mondo che appunto viene offerta dal Figlio al Padre alla fine dei tempi. Questo è probabilmente l'idea del Veltro dantesco.


D- Io mi sono sempre chiesta una cosa: se questa idea che ritroviamo anche nel Paradiso di una gerarchizzazione, del fatto che ci siano vari livelli, non rientri sempre comunque in una atmosfera di razionalità, o non sia sempre qualcosa di razionale. Beatrice nei primi canti dice spesso a Dante di non ragionare con la razionalità, cioè di abbandonare la ragione e di utilizzare un altro modo, un'altra modalità di approcciarsi a questo mondo. La domanda è se questa gerarchizzazione del Paradiso in fondo non sia sempre qualcosa di razionale, questa necessità di dover sempre fare una gerarchia, classificare.
R: Chiaramente c'è questa gerarchia che lei dice; c'è fino a un certo punto però: cioè sì, è obbligatoria, è necessario all'uomo in qualunque modo -nello stesso momento in cui parla- dare un ordine, altrimenti neppure si può fare una frase. Quindi storicamente è necessario stabilire queste differenze; però è affermato in modo chiarissimo nel Paradiso che qui le gerarchie di valori tra Beato e Beato nessuno le può fare, cioè la cosa è interna al Beato: quanto c'è di chiarezza nell'uomo, di carità, "tanto corrisponde la risposta di Dio"; ma questo è dei singoli, cosa che nessuno può sapere, questo è detto nel Paradiso. Quindi quel discorso della rosa nella quale si vedranno i nomi dei grandi Santi, delle grandi donne ebree e altri personaggi in modo da far vedere che la storia è presente nella rosa -perché appunto tutta la storia umana finisce poi nell'Eternità senza perdere la propria connotazione- non toglie però che il valore del singolo sia conosciuto solo a Dio. Questo, Dante lo fa capire più volte: è nel cuore dell'uomo che sta nascosto il suo segreto, solo Dio lo conosce. Per cui molti condannati dagli uomini si sono salvati, come si osservava nei giorni scorsi, condannati addirittura dal Papa come Manfredi, eppure salvo; molti assolti dagli uomini sono invece dannati. Questo è chiarissimo nella Commedia. Quindi c'è sempre questo ultimo luogo inviolabile alla razionalità. Ora io non posso andare a ricercare le varie citazioni ma il senso è questo: c'è la gerarchia necessaria nella storia ma c'è un luogo invalicabile alla stessa ragione umana che appartiene a Dio solo. Questo è un po' detto in tutta la Commedia.


D- La concezione del Paradiso è tutta quanta fondata sulla concezione tolemaico-aristotelica del cosmo. Io vorrei chiederle in che misura Dante si attenga alla cosmologia antica e in quale misura se ne discosti nell'ideare appunto il Paradiso, la sua struttura, la sua organizzazione.
R: Sono due cose molto diverse perché per l'aspetto fisico dell'universo lui segue la cosmologia tolemaica, questo è sicuro, ma questo è l'aspetto fisico; il Paradiso è una cosa diversa, è una cosa dello spirito, è un altro mondo infatti. Lui adopera come mezzo, didatticamente, quello dei sette cieli, perché serve appunto a dare un ordine di cui l'uomo ha bisogno, ma non è l'ordine paradisiaco: infatti questo si conoscerà nell'Empireo, quindi quella prima parte è pedagogica, ha una sua funzione, quella funzione storica appunto necessaria all'uomo. E in questo Dante segue [Tolomeo], perché lui per l'astronomia era ferratissimo: aveva studiato i testi, che conosceva molto bene, tant'è vero che riesce a darsi idee precise sul movimento dell'eclittica, dell'inclinazione, di quanti gradi è inclinata sull'equatore celeste, tutte queste cose tremende, difficilissime da capire per noi, naturalmente. Quindi in questo lui è precisissimo, ne sa parecchio di astronomia; però questo è solo un mezzo, come appunto le balze del Purgatorio, i gironi dell'Inferno: il resto è un'altra cosa, è un ordine diverso che apparirà solo nell'Empireo.


D: Un quesito relativo all'Inferno. Mi sono sempre chiesto per quale motivo Dante colloca più lontani da Lucifero gli assassini piuttosto che altre tipologie, come quelli che vengono poi posti nella pece bollente o altri. Io pensavo che gli assassini fossero in qualche modo ritenuti i peggiori, non capisco perché invece Dante collochi più vicino a Lucifero non so, penso ai barattieri piuttosto che altri….
R: Dante stesso in qualche modo dà la risposta, perché lui segue la gradazione: incontinenza, violenza e frode, come forse sapete. Considerando che la violenza è portata appunto tante volte da passione, [questi peccatori] non usano come gli altri, i successivi peccatori fraudolenti, l'intelligenza, il dono primario dato all'uomo, per l'inganno (che è l'uso distorto della ragione); questa è già la distinzione aristotelica, ma che Dante riprende nell'Inferno: è considerata la cosa più grave, perché l'uomo perde in qualche modo la sua stessa natura, cioè viola questo primario dono che ha avuto, della ragione, per usarlo per inganno. Usare la ragione per questo è la cosa più grave; la più grave poi di tutte sarà il tradimento, che appunto la usa non solo per il male, ma per il male contro chi si fida di noi quindi contro l'amore: questo è il peggiore dei peccati secondo Dante. E' un po' questa la struttura.


D: Prima lei ha parlato di sorriso come unica espressione umana che rimane nel Paradiso; vorrei sapere se Dante attribuisca appunto al sorriso una connotazione superiore a quella che è semplicemente l'espressione di una felicità, cioè se gli dia, se la caratterizzi come una qualità umana che in qualche modo pone l'uomo al di sopra degli altri esseri. Cioè volevo dire: se è solamente una espressione di felicità, quindi solamente un gesto comune, oppure se nella possibilità dell'uomo, nella capacità dell'uomo di ridere c'è dietro la manifestazione di una qualità dell'uomo che è la immaginazione, che lo porta a essere in qualche modo diverso da tutti gli altri esseri animati, compreso anche Dio.
R: Certamente il sorriso è proprio dell'uomo fra tutti gli esseri animati, infatti gli animali non sorridono -a meno che voi abbiate qualche animale che sorride, ma non risulta comunque-; mentre l'animale può piangere, può essere diciamo colto da questo dolore, ma il sorriso è un'espressione tipicamente dell'essere umano, questo è vero. E’ per questo è quello che Dante poi sceglie, perché esprime [qualcosa]: sì, può essere una cosa banale naturalmente, uno può sorridere perché è tutto allegro, perché ha da mangiare una bella torta o cose del genere. Però di suo può significare molto di più: cioè è l'espressione che rappresenta nell'uomo quella qualità oltre terrena appunto di profonda comunione spirituale, che non esiste in nessun altro essere per comunicare. Spesso [si incontrano] persone, che non riescono a parlare e che sono impossibilitate in tutto, ma [hanno] il sorriso, che può essere solo dell'occhio, perché si sorride anche con lo sguardo: un piccolo cenno del volto esprime quella spiritualità tipica dell'essere umano. Credo che sia così.


D: Vorrei sapere se, viste tutte queste immagini di musica e di armonia che spesso ci sono sia nel Purgatorio che nel Paradiso, Dante abbia avuto una qualche implicazione in quello sviluppo della storia della musica italiana che prevede una evoluzione dalla monodia liturgica cristiana alla polifonia, sia in campo religioso che in campo poi profano; visto che avevo letto in qualche commento del Purgatorio che Dante aveva fatto delle teorizzazioni e probabilmente anche lasciato qualcosa di scritto, però siccome non abbiamo documenti, ecco esattamente non c'è documentazione.
R: Certo è che lui conosceva a fondo la musica e la cosa appare chiaramente da molti luoghi sia del Purgatorio sia del Paradiso, quali quelli che ho citato, dove parla per esempio degli strumenti giga e arpa, come il suono sale al collo della cetra composto da varie voci. Ci sono tanti luoghi dove si vede la sua conoscenza sicura, anche scientificamente parlando, della musica, però che per questo una sua teorizzazione esista è un’immaginazione; che io sappia -magari verrà fuori- ma non c'è nulla al momento. Una profonda conoscenza della musica, invece, è sicura. Anzi c'è un nostro amico musicologo di Firenze, Clemente Terni -organista e anche autore di un quintetto polifonico-, che sostiene appunto che Dante abbia usato in molti luoghi della Commedia, nei suoi versi, questa sua sapienza musicale per modulare i versi in un certo modo; lui riconosce addirittura un certo andamento di note in certi versi di Dante, però di più non possiamo affermare. E' un campo certo da studiare.


D-Lei prima ha detto che Dante affronta l'aldilà per cercare di dare un significato alla vita terrena dell'uomo, però poi ci ha detto che nel Paradiso non c'è il tempo, non è presente, e quindi direttamente non è presente la storia -anche perché comunque diceva prima che c'è la storia di San Francesco che magari va presa come esempio-. Ecco, io volevo chiedere perché questa assenza della storia in una cantica così importante come il Paradiso, che a mio avviso dovrebbe dare degli esempi di buona condotta o comunque di virtù; perché la storia non c'è?
R: Un momento: non è che non c'è la storia, la storia è presente; nel Paradiso, dicevo che non si dà più tutta l'importanza alle singole vite private, ai singoli eventi, ma l'aspetto storico è importantissimo: se si pensa al VI Canto dedicato all'Impero romano, se si pensa appunto alle vite di Francesco e di Domenico nel qualeCanto si parla della Chiesa che è traviata, che ha bisogno di essere rifondata, ricostituita; ma fino all'ultimo [la storia] è presente, nel Canto di San Pier Damiani per esempio, di Benedetto, c'è una presenza continua della storia. Io dicevo che siamo al di là della storia, fuori del tempo e dello spazio, ma la storia umana oltre il tempo e lo spazio continua a essere presente perché ogni uomo porta con sé la sua storia: non c'è più lo svolgimento della storia, il movimento, ma è presente -naturalmente finché siamo in questa terra, finché Dante scrive con la sua penna la Commedia, non si può uscire dalla storia, questo è sicuro. Ma nella stessa rosa dei Beati appaiono i nomi della storia, questo come cercavo di dire -certo è difficile perché è quasi paradossale- serve a far capire che nell'eternità dell'uomo divino, diciamo così, non si perde però nulla, nemmeno un briciolo della sua umanità storica, non è che sia perduta, come dice lo sguardo della madre Anna verso la Figlia.


D: Per noi che studiamo la Divina Commedia in un contesto molto differente da quello medievale, in cui comunque la religione sta assumendo un significato diverso, non è più un costante punto di riferimento -anche per la società non soltanto per il singolo individuo- volevo chiederLe come la Divina Commedia possa essere attualizzata non soltanto a livello dell'intimo convincimento e quindi del percorso che un uomo può fare verso la sua purificazione interiore, ma proprio a livello collettivo; perché comunque mi sembra di aver capito che nella contemporaneità di Dante avesse anche un significato che andasse oltre al singolo, e quindi mi chiedevo come adesso possa essere attualizzata.
R: Attualizzata cosa vorrebbe dire?
D: La ricezione, la ricezione collettiva anche di questa opera, non so come dire; capisco il percorso individuale dell'uomo che è espresso nella Divina Commedia, però non so anche il valore più esteso alla collettività.
R: Non avendo ben capito la domanda non posso nemmeno fare una buona risposta. (in sottofondo si sente che avviene un chiarimento, N.d.R.). Beh, questo diciamo è quasi sottinteso, quasi ovvio, dicevo dell'interesse: gli altri giorni parlavo dell'interesse che in tutto il mondo -compresi appunto gli orientali, i vietnamiti ecc…- hanno per la Divina Commedia: evidentemente il messaggio, chiamiamolo così, che la Commedia porta ha un valore universale non riguarda solo l'individuo, riguarda tutta l'umanità; non per niente c'è questo appassionato studio del poema in tutto il mondo. Forse qui sta la risposta: cioè quello che la Commedia trasmette, questo valore che dicevamo dell'individuo e dell'umanità, vale un po' per tutti i popoli e per tutte le genti, non è ridotto ad una speciale confessione o situazione politica, ne trascende, è in un certo modo un messaggio per tutta l'umanità. Infatti Dante diciamo presume di parlare per tutta l'umanità, non per questo o quel popolo, per questo o quell'individuo: lui parla all'uomo intendendo tutti gli uomini. Questo è chiarissimo, è proprio tipico del poema, questo credo che si possa dire; tant'è vero che ci si riconoscono tutti.


D: Io mi chiedevo sino a che punto si possa parlare di una religiosità sincera da parte di Dante, e fino invece a che punto questa religione sia più funzionale alla sua poetica, alla sua invenzione più che a una sincera espressione di fede.
R: Cioè Dante userebbe la religione come un mezzo, così per fare, per farsi conoscere, per fare propaganda, ma non ci crede poi di fatto? Questa mi sembra un po' una qualche cosa addirittura di inverosimile; perché la profondità di quella poesia non può nascere che da un sentimento profondo e sincero, altrimenti non si scrive poesia intendiamoci bene, si scrivono libretti di propaganda o cose del genere, ma una poesia come questa è il fatto poetico che risponde di sé. Risponde praticamente coi fatti, una poesia, se è poesia, se non è appunto retorica, nasce solamente da una profonda convinzione dell'uomo; quindi questa realtà che poi ha avuto questa forza straordinaria attraverso i secoli, nasce appunto da una sincerità. Si potrà discutere su questi suoi pensieri, questo sì, ma non sulla genuinità del pensiero, sulla sincerità del pensiero. Discuteremo quello che lui ci dice, l'oggetto, va bene. A questo proposito forse quell'idea che avevo detto il primo giorno potrebbe servire: questo importante elemento della Commedia, forse il più nuovo, il più ardito, il sottolineare sempre la libertà, il primato della libertà, dello spirito sulla lettera, cioè l'uomo di fronte alla legge (“l'uomo non è fatto per il sabato ma il sabato per l'uomo”) è scritto nel Vangelo: cioè di fatto l'uomo è superiore alla legge. Questa è una cosa rivoluzionaria in genere in tutte le culture, perché prima viene la legge e poi l'uomo ed è l'idea -questa sì, possiamo dire tipicamente cristiana- presente in quella frase che ho citato prima, che è fondamentale -Dante fa molti esempi di questo-: è soltanto nel cuore che l'uomo può essere giudicato, quindi da Dio solo, la legge è fatta sì ma non è la prima cosa. Così lo scomunicato che viene salvato, così il condannato dal Papa che viene appunto salvato, così invece l'assolto dal Papa -Guido da Montefeltro- viene condannato, perché è nel cuore che si decide la cosa e l'uomo è superiore, ha una libertà che oltrepassa la legge. Questo, del resto, è straordinariamente visibile in Paradiso, quando Dante salva il troiano Rifeo, un personaggio dell'Eneide assolutamente sconosciuto, detto però “giusto”: lui non ha avuto il Battesimo, non ha conosciuto il nome di Cristo, non ha saputo niente, però è in Paradiso tra i più grandi, perché Dio ha visto nel suo cuore la sua giustizia e gli ha dato in premio questa fede che lo ha salvato. Quindi ci sono molti elementi di questo tipo nel Paradiso, in tutta la Commedia: questo è un segno che è forse il più moderno, il più profetico che si trovi nella Commedia, questo valore che ancora oggi molti mettono in dubbio, nelle culture che conosciamo almeno, dove bisogna stare attenti a mille prescrizioni: non mangiare questo cibo perché ci si contamina, e cose del genere.


D: Forse ho trovato il modo di spiegare un po' meglio quello che volevo dire prima. Volevo chiederLe come possa essere ricevuta ora la Divina Commedia in un mondo in cui una buona parte delle persone sono non credenti, e quindi il significato che può assumere un poema che è universale e che quindi io sento che può andare a coinvolgere anche chi non è profondamente cristiano e credente; ma appunto, come può essere coinvolta una persona non credente ora; quindi l'attualità della Divina Commedia, che è stata scritta in un mondo in cui tutti erano credenti, in una attualità che è diversa, cioè in un periodo diverso.
R: A questo non è che si possa rispondere in modo così storico, è evidente; ma è un fatto però, perché la Divina Commedia non propone particolari ristretti, come codici da seguire o da credere, non propone un catechismo: propone un modo di vivere fondato su questi elementi principali della libertà che dicevo prima, di questa dignità dell'essere umano, di questa sua, meta oltre terrena che alla fine è scritta nel cuore di tutti gli uomini. Su questo non credo sia possibile discutere. Fin dalle origini dell'umanità l'uomo ha tentato in qualche modo di intravedere un proprio destino diverso da un finire in una fossa, e quella Commedia è appunto organizzata e scritta, come si è visto nello sviluppo perlomeno di queste cantiche, sempre con questo alto pensiero che oltrepassa i singoli credi, le singole religioni e che quindi può essere accolto dallo spirito dell'uomo libero; come dimostra appunto la sua diffusione, la sua assoluta come dire… questo poter pervadere tutte le culture compresi appunto gli armeni –no, gli armeni no perché erano cristiani- ma i vietnamiti o i turchi, la cosa è di per sé probante. E' uno spirito superiore, quello dantesco, non è inscritto in strette pastoie di definizioni precise, ma si allarga appunto a tutte le possibilità dell'uomo. E' lo spirito dell'uomo che ne vien fuori, penso che si possa rispondere così.


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