giovedì 8 aprile 2010

Cultura barocca


Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta (1641)

Quelli che si applicano al piacer della parte ch'è in noi soggett'alla morte, sprezzando l'uso della ragione, si mutano in abito di fiere; perché tali son da riputarsi, come fu espresso da Epicteto stoico, dicendo: “Certe misellus homuncio, et caro infoelix, et revera misera. At melius quiddam habes carne; quare, misso illo et neglecto, carni duntaxat es deditus? Ob huius societatem declinantes a meliore natura quidam, lupis similes efficimur, dum sumus perfidi et insidiosi et ad nocendum parati: alii leonibus, quia feri, immanes ac truculenti: maxima vero pars vulpeculae sumus”.
              Da che si può considerar un de' duri impedimenti nel dissimulare; poiché il guardarsi da lupi e da leoni è cosa piú pronta per la notizia che si ha della lor violenza, e perché poche volte si riscontrano; ma le volpi son tra noi molte e non sempre conosciute, e quando si conoscono, è pur malagevole usar l'arte contra l'arte, ed in tal caso riuscirà piú accorto chi piú saprà tener apparenza di sciocco, perché, mostrando di creder a chi vuol ingannarci, può esser cagion ch'egli creda a nostro modo; ed è parte di grand'intelligenza che si dia
a veder di non vedere,
quando piú si vede, già
che cosí 'l giuoco è
con occhi che pa-
ion chiusi e stan-
no in se stessi
aperti.


Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, (1654)

Ed eccoci alla fin pervenuti grado per grado al più alto colmo delle figure ingegnose, a paragon delle quali tutte le altre figure fin qui recitate perdono il pregio, essendo la metafora il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino e mirabile, il più gioviale e giovevole, il più facondo e fecondo parto dell'umano intelletto. Ingegnosissimo veramente, però che, se l'ingegno consiste (come dicemmo) nel ligare insieme le remote e separate nozioni degli propositi obietti, questo apunto è l'officio della metafora, e non di alcun'altra figura: perciò che, traendo la mente, non men che la parola, da un genere all'altro, esprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso, trovando in cose dissimiglianti la simiglianza. Onde conchiude il nostro autore che il fabricar metafore sia fatica di un perspicace e agilissimo ingegno. E per consequente ell'è fra le figure la più acuta: però che l'altre quasi grammaticalmente si formano e si fermano nella superficie del vocabulo, ma questa riflessivamente penetra e investiga le più astruse nozioni per accoppiarle; e dove quelle vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di concetti.
Quinci ell'è di tutte l'altre la più pellegrina per la novità dell'ingegnoso accoppiamento: senza la qual novità l'ingegno perde la sua gloria e la metafora la sua forza. Onde ci avisa il nostro autore che la sola metafora vuol essere da noi partorita, e non altronde, quasi supposito parto, cercata in prestito. E di qui nasce la meraviglia, mentre che l'animo dell'uditore, dalla novità soprafatto, considera l'acutezza dell'ingegno rappresentante e la inaspettata imagine dell'obietto rappresentato.
Che s'ella è tanto ammirabile, altretanto gioviale e dilettevole convien che sia: però che dalla maraviglia nasce il diletto, come da' repentini cambiamenti delle scene e da' mai più veduti spettacoli tu sperimenti. Che se il diletto recatoci dalle retoriche figure procede (come ci 'nsegna il nostro autore) da quella cupidità delle menti umane d'imparar cose nuove senza fatica e molte cose in piccol volume, certamente più dilettevole di tutte l'altre ingegnose figure sarà la metafora: che, portando a volo la nostra mente da un genere all'altro, ci fa travedere in una sola parola più di un obietto. Perciò che se tu di': «Prata amoena sunt», altro non mi rappresenti che il verdeggiar de' prati; ma se tu dirai: «Prata rident», tu mi farai (come dissi) veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l'amenità il riso lieto. Talché in una paroletta transpaiono tutte queste nozioni di generi differenti: terra, prato, amenità, uomo, anima, riso, letizia. E reciprocamente con veloce tragitto osservo nella faccia umana le nozioni de' prati e tutte le proporzioni che passano fra queste e quelle, da me altra volta non osservate. E questo è quel veloce e facile insegnamento da cui ci nasce il diletto, parendo alla mente di chi ode vedere in un vocabulo solo un pien teatro di meraviglie.
Né men giovevole a' dicitori che dilettevole agli uditori è la metafora. Sì perch'ella spesse fiate providamente sovviene alla mendicità della lingua e, ove manchi il vocabulo proprio, supplisce necessariamente il translato: come se tu volessi dir co' vocabuli propri «vites gemmant» e «sol lucem spargit», tu non sapresti. Onde ben avvisò Cicerone, le metafore simigliare alle vesti, che, ritrovate di necessità, servono ancor di gala e di ornamento […]
Ma qual faconda diceria di voci propie potrebbe esprimere gli inesprimibili concetti, farci sentir le cose insensibili e veder le invisibili, quanto la metafora? Come se tu dicessi: «Colui ha costumi dolci. Costui ha uno spirito bollente. Quegli ha un ingegno duro, anima nera, pensieri turbidi, precipitose deliberazioni». Va ora tu, e spiega questi concetti con più significanti parole propie



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