DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO
Folletto. Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va?
Gnomo. Mio padre m'ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.
Folletto. Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
Gnomo. Che vuoi tu inferire?
Folletto. Voglio inferire che gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta.
Gnomo. Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s'è veduto che ne ragionino.
Folletto. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?
Gnomo. Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?
Folletto. Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l'uno all'altro come uovo a uovo.
Gnomo. Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.
Folletto. Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
Gnomo. E i giorni della settimana non avranno più nome.
Folletto. Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
Gnomo. E non si potrà tenere il conto degli anni.
Folletto. Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l'età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.
Gnomo. Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto. Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l'un l'altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell'ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.
Gnomo. A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.
Folletto. Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
Gnomo. Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.
Folletto. E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.
Gnomo. Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.
Folletto. Perché? io parlo bene sul sodo.
Gnomo. Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?
Folletto. Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa è la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l'aria, il mare, le campagne?
Gnomo. Che fanno ai folletti le cave d'oro e d'argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?
Folletto. Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei.
Gnomo. Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l'altre cose che facevano a questo e a quello, s'inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel'aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
Folletto. Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagatella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini nella terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d'uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse.
Gnomo. Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?
Folletto. Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.
Gnomo. In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.
Folletto. Ma i porci, secondo Crisippo(1) erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
Gnomo. Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell'anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.
Folletto. E anche quest'altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimenti di tratto in tratto, per via de' loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d'anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s'immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell'alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.
Gnomo. Sicché, in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l'aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.
Folletto. Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
Gnomo. E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
Folletto. E il sole non s'ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch'ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN'ANIMA
Natura. Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice.
Anima. Che male ho io commesso prima di vivere, che tu mi condanni a cotesta pena?
Natura. Che pena, figliuola mia?
Anima. Non mi prescrivi tu di essere infelice?
Natura. Ma in quanto che io voglio che tu sii grande, e non si può questo senza quello. Oltre che tu sei destinata a vivificare un corpo umano; e tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici.
Anima. Ma in contrario saria di ragione che tu provvedessi in modo, che eglino fossero felici per necessità; o non potendo far questo, ti si converrebbe astenere da porli al mondo.
Natura. Né l'una né l'altra cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti, qualunque se ne sia la cagione; che né tu né io non la possiamo intendere. Ora, come tu sei stata creata e disposta a informare una persona umana, già qualsivoglia forza, né mia né d'altri, non è potente a scamparti dall'infelicità comune degli uomini. Ma oltre di questa, te ne bisognerà sostenere una propria, e maggiore assai, per l'eccellenza della quale io t'ho fornita.
Anima. Io non ho ancora appreso nulla; cominciando a vivere in questo punto: e da ciò dee provenire ch'io non t'intendo. Ma dimmi, eccellenza e infelicità straordinaria sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l'una dall'altra?
Natura. Nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire che l'una e l'altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l'eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento dell'infelicità propria; che è come se io dicessi maggiore infelicità. Similmente la maggior vita degli animi inchiude maggiore efficacia di amor proprio, dovunque esso s'inclini, e sotto qualunque volto si manifesti: la qual maggioranza di amor proprio importa maggior desiderio di beatitudine, e però maggiore scontento e affanno di esserne privi, e maggior dolore delle avversità che sopravvengono. Tutto questo è contenuto nell'ordine primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io non posso alterare. Oltre di ciò, la finezza del tuo proprio intelletto, e la vivacità dell'immaginazione, ti escluderanno da una grandissima parte della signoria di te stessa. Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dall'immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell'eseguire. I meno atti o meno usati a ponderare e considerare seco medesimi, sono i più pronti al risolversi, e nell'operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiacciono il più del tempo all'irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è l'uno dei maggiori travagli che affliggono la vita umana. Aggiungi che mentre per l'eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo, quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre o impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in se, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo. Queste ed altre infinite difficoltà e miserie occupano e circondano gli animi grandi. Ma elle sono ricompensate abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricordanza che essi lasciano di sé ai loro posteri.
Anima. Ma coteste lodi e cotesti onori che tu dici, gli avrò io dal cielo, o da te, o da chi altro?
Natura. Dagli uomini: perché altri che essi non li può dare.
Anima. Ora vedi, io mi pensava che non sapendo fare quello che è necessarissimo, come tu dici, al commercio cogli altri uomini, e che riesce anche facile insino ai più poveri ingegni; io fossi per essere vilipesa e fuggita, non che lodata, dai medesimi uomini; o certo fossi per vivere sconosciuta a quasi tutti loro, come inetta al consorzio umano.
Natura. A me non è dato prevedere il futuro, né quindi anche prenunziarti infallibilmente quello che gli uomini sieno per fare e pensare verso di te mentre sarai sulla terra. Ben è vero che dall'esperienza del passato io ritraggo per lo più verisimile, che essi ti debbano perseguitare coll'invidia; la quale è un'altra calamità solita di farsi incontro alle anime eccelse; ovvero ti sieno per opprimere col dispregio e la noncuranza. Oltre che la stessa fortuna, e il caso medesimo, sogliono essere inimici delle tue simili. Ma subito dopo la morte, come avvenne ad uno chiamato Camoens, o al più di quivi ad alcuni anni, come accadde a un altro chiamato Milton, tu sarai celebrata e levata al cielo, non dirò da tutti, ma se non altro, dal piccolo numero degli uomini di buon giudizio. E forse le ceneri della persona nella quale tu sarai dimorata, riposeranno in sepoltura magnifica; e le sue fattezze, imitate in diverse guise, andranno per le mani degli uomini; e saranno descritti da molti, e da altri mandati a memoria con grande studio, gli accidenti della sua vita; e in ultimo tutto il mondo civile sarà pieno del nome suo. Eccetto se dalla malignità della fortuna, o dalla soprabbondanza medesima delle tue facoltà, non sarai stata perpetuamente impedita di mostrare agli uomini alcun proporzionato segno del tuo valore: di che non sono mancati per verità molti esempi, noti a me sola ed al fato.
Anima. Madre mia, non ostante l'essere ancora priva delle altre cognizioni, io sento tuttavia che il maggiore, anzi il solo desiderio che tu mi hai dato, è quello della felicità. E posto che io sia capace di quel della gloria, certo non altrimenti posso appetire questo non so se io mi dica bene o male, se non solamente come felicità, o come utile ad acquistarla. Ora, secondo le tue parole, l'eccellenza della quale tu m'hai dotata, ben potrà essere o di bisogno o di profitto al conseguimento della gloria; ma non però mena alla beatitudine, anzi tira violentemente all'infelicità. Né pure alla stessa gloria è credibile che mi conduca innanzi alla morte: sopraggiunta la quale, che utile o che diletto mi potrà pervenire dai maggiori beni del mondo? E per ultimo, può facilmente accadere, come tu dici, che questa sì ritrosa gloria, prezzo di tanta infelicità, non mi venga ottenuta in maniera alcuna, eziandio dopo la morte. Di modo che dalle tue stesse parole io conchiudo che tu, in luogo di amarmi singolarmente, come affermavi a principio, mi abbi piuttosto in ira e malevolenza maggiore che non mi avranno gli uomini e la fortuna mentre sarò nel mondo; poiché non hai dubitato di farmi così calamitoso dono come è cotesta eccellenza che tu mi vanti. La quale sarà l'uno dei principali ostacoli che mi vieteranno di giungere al mio solo intento, cioè alla beatitudine.
Natura. Figliuola mia; tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono assegnate in preda all'infelicità, senza mia colpa. Ma nell'universale miseria della condizione umana, e nell'infinita vanità di ogni suo diletto e vantaggio, la gloria è giudicata dalla miglior parte degli uomini il maggior bene che sia concesso ai mortali, e il più degno oggetto che questi possano proporre alle cure e alle azioni loro. Onde, non per odio, ma per vera e speciale benevolenza che ti avea posta, io deliberai di prestarti al conseguimento di questo fine tutti i sussidi che erano in mio potere.
Anima. Dimmi: degli animali bruti, che tu menzionavi, è per avventura alcuno fornito di minore vitalità e sentimento che gli uomini?
Natura. Cominciando da quelli che tengono della pianta, tutti sono in cotesto, gli uni più, gli altri meno, inferiori all'uomo; il quale ha maggior copia di vita, e maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il più perfetto.
Anima. Dunque alluogami, se tu m'ami, nel più imperfetto: o se questo non puoi, spogliata delle funeste doti che mi nobilitano, fammi conforme al più stupido e insensato spirito umano che tu producessi in alcun tempo.
Natura. Di cotesta ultima cosa io ti posso compiacere; e sono per farlo; poiché tu rifiuti l'immortalità, verso la quale io t'aveva indirizzata.
Anima. E in cambio dell'immortalità, pregoti accelerarmi la morte il più che si possa.
Natura. Di codesto conferirò col destino.
DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE SUE MUMMIE(1)
Coro di morti nello studio di Federico Ruysch
Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dall'antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l'arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d'affanno e di temenza è sciolto,
E l'età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell'alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n'avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de' vivi al pensiero
L'ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura;
Però ch'esser beato
Nega ai mortali e nega a' morti il fato.
Ruysch fuori dello studio, guardando per gli spiragli dell'uscio. Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono più morto di loro. Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant'è: con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l'uscio, o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paura de' morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far paura a loro.
Entrando. Figliuoli, a che giuoco giochiamo? non vi ricordate di essere morti? che è cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per la visita dello Czar,(2) e vi pensate di non essere più soggetti alle leggi di prima? Io m'immagino che abbiate avuto intenzione di far da burla, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro con voi; ma non ho tanto, che io possa far le spese ai vivi, come ai morti; e però levatevi di casa mia. Se è vero quel che si dice dei vampiri, e voi siete di quelli, cercate altro sangue da bere; che io non sono disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi sono stato liberale di quel finto, che vi ho messo nelle vene.(3) In somma, se vorrete continuare a star quieti e in silenzio, come siete stati finora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi mancherà niente; se no, avvertite ch'io piglio la stanga dell'uscio, e vi ammazzo tutti.
Morto. Non andare in collera; che io ti prometto che resteremo tutti morti come siamo, senza che tu ci ammazzi.
Ruysch. Dunque, che è cotesta fantasia che vi è nata adesso, di cantare?
Morto. Poco fa sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell'anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa similmente è la prima volta che i morti parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella canzoncina che hai sentita.
Ruysch. E quanto dureranno a cantare o a parlare?
Morto. Di cantare hanno già finito. Di parlare hanno facoltà per un quarto d'ora. Poi tornano in silenzio per insino a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.
Ruysch. Se cotesto è vero, non credo che mi abbiate a rompere il sonno un'altra volta. Parlate pure insieme liberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò volentieri, per curiosità, senza disturbarvi.
Morto. Non possiamo parlare altrimenti, che rispondendo a qualche persona viva. Chi non ha da replicare ai vivi, finita che ha la canzone, si accheta.
Ruysch. Mi dispiace veramente: perché m'immagino che sarebbe un gran sollazzo a sentire quello che vi direste fra voi, se poteste parlare insieme.
Morto. Quando anche potessimo, non sentiresti nulla; perché non avremmo che ci dire.
Ruysch. Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d'animo nel punto della morte.
Morto. Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi.
Gli altri morti. né anche noi.
Ruysch. Come non ve n'accorgeste?
Morto. Verbigrazia, come tu non ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre.
Ruysch. Ma l'addormentarsi è cosa naturale.
Morto. E il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia.
Ruysch. Non mi maraviglio più che andiate cantando e parlando, se non vi accorgeste di morire.
Così colui, del colpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto,
dice un poeta italiano. Io mi pensava che sopra questa faccenda della morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi. Ma dunque, tornando sul sodo, non sentiste nessun dolore in punto di morte?
Morto. Che dolore ha da essere quello del quale chi lo prova, non se n'accorge?
Ruysch. A ogni modo, tutti si persuadono che il sentimento della morte sia dolorosissimo.
Morto. Quasi che la morte fosse un sentimento, e non piuttosto il contrario.
Ruysch. E tanto quelli che intorno alla natura dell'anima si accostano col parere degli Epicurei, quanto quelli che tengono la sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono in quello ch'io dico; cioè nel credere che la morte sia per natura propria, e senza nessuna comparazione, un dolore vivissimo.
Morto. Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e agli altri: se l'uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano non più che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope o per qualunque causa; come si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali acuti e dolorosi, in sull'appressarsi della morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità, non è più sufficiente al dolore, sicché questo cessa prima di quella. Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto di morte.
Ruysch. Agli Epicurei forse potranno bastare coteste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti della sostanza dell'anima; come ho fatto io per lo passato, e farò da ora innanzi molto maggiormente, avendo udito parlare e cantare i morti. Perché stimando che il morire consista in una separazione dell'anima dal corpo, non comprenderanno come queste due cose, congiunte e quasi conglutinate tra loro in modo, che constituiscono l'una e l'altra una sola persona, si possano separare senza una grandissima violenza, e un travaglio indicibile.
Morto. Dimmi: lo spirito è forse appiccato al corpo con qualche nervo, o con qualche muscolo o membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spirito si parte? o forse è un membro del corpo, in modo che n'abbia a essere schiantato o reciso violentemente? Non vedi che l'anima in tanto esce di esso corpo, in quanto solo è impedita di rimanervi, e non v'ha più luogo; non già per nessuna forza che ne la strappi e sradichi? Dimmi ancora: forse nell'entrarvi, ella vi si sente conficcare o allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare? Perché dunque sentirà spiccarsi all'uscirne, o vogliamo dire proverà una sensazione veementissima? Abbi per fermo, che l'entrata e l'uscita dell'anima sono parimente quiete, facili e molli.
Ruysch. Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?
Morto. Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire, come l'addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno, e maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell'ultimo di tali istanti la morte non reca né dolore né piacere alcuno, come né anche il sonno. Negli altri precedenti non può generare dolore perché il dolore è cosa viva, e i sensi dell'uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere: perché il piacere non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell'uomo sono capaci di piacere anche presso all'estinguersi; atteso che spessissime volte la stessa languidezza è piacere; massime quando vi libera da patimento; poiché ben sai che la cessazione di qualunque dolore o disagio, è piacere per se medesima. Sicché il languore della morte debbe esser più grato secondo che libera l'uomo da maggior patimento. Per me, se bene nell'ora della morte non posi molta attenzione a quel che io sentiva, perché mi era proibito dai medici di affaticare il cervello; mi ricordo però che il senso che provai, non fu molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando.
Gli altri morti. Anche a noi pare di ricordarci altrettanto.
Ruysch. Sia come voi dite: benché tutti quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare sopra questa materia, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre sentivate quella dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosse una cortesia della morte; o pure immaginaste qualche altra cosa?
Morto. Finché non fui morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino all'ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse di vita un'ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono.
Gli altri morti. A noi successe il medesimo.
Ruysch. Così Cicerone(4) dice che nessuno è talmente decrepito, che non si prometta di vivere almanco un anno. Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito dal corpo? Dite: come conosceste d'essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un'altra volta: torniamocene a letto.
CANTICO DEL GALLO SILVESTRE
Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell'uno e mezzo nell'altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo.(1) Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare più d'un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d'intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l'oda cantare, o chi l'abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non mi dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo corrisponde in questa parte all'uso delle lingue, e massime dei poeti, d'oriente.
Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.
Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll'animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è più desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell'infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L'una e l'altra insino alla vigilia del dì seguente, conservasi intera e salva; ma in questa, o manca o declina.
Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l'astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l'aria, né sussurro d'api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l'universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l'intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell'imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente, dì e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?(2)
Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per se mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte.
Pare che l'essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l'ultima causa dell'essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l'ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro; e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte.
A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell'ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta novamente nell'animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso come effetto di errori, e d'immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo più racconsolato e confidente; la sera trista, scoraggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventù della vita intera, così quella che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il dì si riduce per loro in età provetta.
Il fior degli anni, se bene è il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell'universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l'universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell'autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l'universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.(3)
DIALOGO DI PLOTINO E DI PORFIRIO
Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi la vita, Plotino se ne avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse che io mutassi paese. Porfirio nella vita di Plotino. Il simile in quella di Porfirio scritta da Eunapio: il quale aggiunge che Plotino distese in un libro i ragionamenti avuti con Porfirio in quella occasione.
Plotino. Porfirio, tu sai ch'io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore. Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura, e lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.
Porfirio. Come, che vuoi tu dire?
Plotino. Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo augurio a nominarlo. Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non far questa ingiuria a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti fo dispiacere a muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro di tenerti il tuo proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva tacere; e tu non dovresti avere a male di conferirla con persona che ti vuol tanto bene quanto a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando le ragioni: tu sfogherai l'animo tuo meco, ti dorrai, piangerai; che io merito da te questo: e in ultimo io non sono già per impedirti che tu non facci quello che noi troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.
Porfirio. Io non ti ho mai disdetto cosa che tu mi domandassi, Plotino mio. Ed ora confesso a te quello che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei ad altri per cosa alcuna del mondo; dico che quel che tu immagini della mia intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa materia; benché l'animo mio ci ripugna molto, perché queste tali deliberazioni pare che si compiacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti pensieri ami di essere solitaria e ristretta in se medesima più che mai; pure io sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita, da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l'intelletto mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità. E qui primieramente non mi potrai dire che questa mia disposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale. Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le altre disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza; sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa. E nessuna cosa è più ragionevole che la noia. I piaceri sono tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell'animo, per lo più è vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia, a considerarla bene, ella è di poca realtà o di nessuna. Il simile dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto l'altro vano, alla noia riducasi, e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale.
Plotino. Sia così. Non voglio ora contraddirti sopra questa parte. Ma noi dobbiamo adesso considerare il fatto che tu vai disegnando: dico, considerarlo più strettamente, e in se stesso. Io non ti starò a dire che sia sentenza di Platone, come tu sai, che all'uomo non sia lecito, in guisa di servo fuggitivo, sottrarsi di propria autorità da quella quasi carcere nella quale egli si ritrova per volontà degli Dei; cioè privarsi della vita spontaneamente.
Porfirio. Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine, e le sue fantasie. Altra cosa è lodare, commentare, difendere certe opinioni nelle scuole e nei libri; ed altra è seguitarle nell'uso pratico. Alla scuola e nei libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poiché tale è l'usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io piuttosto gli abbomino. So ch'egli si dice che Platone spargesse negli scritti suoi quelle dottrine della vita avvenire, acciocché gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto circa lo stato loro dopo la morte; per quella incertezza, e per timore di pene e di calamità futura, si ritenessero nella vita dal fare ingiustizia e dalle altre male opere.(1) Che se io stimassi che Platone fosse stato autore di questi dubbi, e di queste credenze; e che elle fossero sue invenzioni; io direi: tu vedi, Platone, quanto o la natura o il fato o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell'universo, è stata ed è perpetuamente inimica alla nostra specie. Alla quale molte, anzi innumerabili ragioni potranno contendere quella maggioranza che noi, per altri titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si troverà che le tolga quel principato che l'antichissimo Omero le attribuiva; dico il principato della infelicità. Tuttavia la natura ci destinò per medicina di tutti i mali la morte: la quale da coloro che non molto usassero il discorso dell'intelletto, saria poco temuta; dagli altri desiderata. E sarebbe un conforto dolcissimo nella vita nostra, piena di tanti dolori, l'aspettazione e il pensiero del nostro fine. Tu con questo dubbio terribile, suscitato da te nelle menti degli uomini, hai tolta da questo pensiero ogni dolcezza, e fattolo il più amaro di tutti gli altri. Tu sei cagione che si veggano gl'infelicissimi mortali temere più il porto che la tempesta, e rifuggire coll'animo da quel solo rimedio e riposo loro, alle angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei stato agli uomini più crudele che il fato o la necessità o la natura. E non si potendo questo dubbio in alcun modo sciorre, né le menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre i tuoi simili a questa condizione, che essi avranno la morte piena d'affanno, e più misera che la vita. Perciocché per opera tua, laddove tutti gli altri animali muoiono senza timore alcuno, la quiete e la sicurtà dell'animo sono escluse in perpetuo dall'ultima ora dell'uomo. Questo mancava, o Platone, a tanta infelicità della specie umana.
Lascio che quello effetto che ti avevi proposto, di ritenere gli uomini dalle violenze e dalle ingiustizie, non ti è venuto fatto. Perocché quei dubbi e quelle credenze spaventano tutti gli uomini in sulle ore estreme, quando essi non sono atti a nuocere: nel corso della vita, spaventano frequentemente i buoni, i quali hanno volontà non di nuocere, ma di giovare; spaventano le persone timide, e le deboli di corpo, le quali alle violenze e alle iniquità non hanno né la natura inclinata, né sufficiente il cuore e la mano. Ma gli arditi, e i gagliardi, e quelli che poco sentono la potenza della immaginativa; in fine coloro ai quali in generalità si richiederebbe altro freno che della sola legge; non ispaventano esse, né tengono dal male operare: come noi veggiamo per gli esempi quotidianamente, e come la esperienza di tutti i secoli, da' tuoi dì per insino a oggi, fa manifesto. Le buone leggi, e più la educazione buona, e la cultura dei costumi e delle menti, conservano nella società degli uomini la giustizia e la mansuetudine: perocché gli animi dirozzati e rammorbiditi da un poco di civiltà, ed assuefatti a considerare alquanto le cose, e ad operare alcun poco l'intendimento; quasi di necessità e quasi sempre abborriscono dal por mano nelle persone e nel sangue dei compagni; sono per lo più alieni dal fare ad altri nocumento in qualunque modo; e rare volte e con fatica s'inducono a correre quei pericoli che porta seco il contravvenire alle leggi. Non fanno già questo buono effetto le immaginazioni minacciose, e le opinioni triste di cose fiere e spaventevoli: anzi come suol fare la moltitudine e la crudeltà dei supplizi che si usino dagli stati, così ancora quelle accrescono, in un lato la viltà dell'animo, in un altro la ferocità; principali inimiche e pesti del consorzio umano.
Ma tu hai posto ancora innanzi e promesso guiderdone ai buoni. Qual guiderdone? Uno stato che ci apparisce pieno di noia, ed ancor meno tollerabile che questa vita. A ciascheduno è palese l'acerbità di que' tuoi supplicii; ma la dolcezza de' tuoi premii è nascosa, ed arcana, e da non potersi comprendere da mente d'uomo. Onde nessuna efficacia possono aver così fatti premii di allettarci alla rettitudine e alla virtù. E in vero, se molto pochi ribaldi, per timore di quel tuo spaventoso Tartaro si astengono da alcuna mala azione; mi ardisco io di affermare che mai nessun buono, in un suo menomo atto, si mosse a bene operare per desiderio di quel tuo Eliso. Che non può esso alla immaginazione nostra aver sembianza di cosa desiderabile. Ed oltre che di molto lieve conforto sarebbe eziandio la espettazione certa di questo bene, la quale speranza hai tu lasciato che ne possano avere anco i virtuosi e i giusti; se quel tuo Minosse e quello Eaco e Radamanto, giudici rigidissimi e inesorabili, non hanno a perdonare a qualsivoglia ombra o vestigio di colpa? E quale uomo è che si possa sentire o credere così netto e puro come lo richiedi tu? Sicché il conseguimento di quella qual che si sia felicità viene a esser quasi impossibile: e non basterà la coscienza della più retta e della più travagliosa vita ad assicurare l'uomo in sull'ultimo, dalla incertezza del suo stato futuro, e dallo spavento dei gastighi. Così per le tue dottrine il timore, superata con infinito intervallo la speranza, è fatto signore dell'uomo: e il frutto di esse dottrine ultimamente è questo; che il genere umano, esempio mirabile d'infelicità in questa vita, si aspetta, non che la morte sia fine alle sue miserie, ma di avere a essere dopo quella, assai più infelice. Con che tu hai vinto di crudeltà, non pur la natura e il fato, ma ogni tiranno più fiero, e ogni più spietato carnefice, che fosse al mondo.
Ma con qual barbarie si può paragonare quel tuo decreto, che all'uomo non sia lecito di por fine a' suoi patimenti, ai dolori, alle angosce, vincendo l'orrore della morte e volontariamente privandosi dello spirito? Certo non ha luogo negli animali il desiderio di terminar la vita; perché le infelicità loro hanno più stretti confini che le infelicità dell'uomo: né avrebbe anco luogo il coraggio di estinguerla spontaneamente. Ma se pur tali disposizioni cadessero nella natura dei bruti, nessuno impedimento avrebbero essi al poter morire; nessun divieto, nessun dubbio torrebbe loro la facoltà di sottrarsi dai loro mali. Ecco che tu ci rendi anco in questa parte, inferiori alle bestie: e quella libertà che avrebbero i bruti se loro accadesse di usarla; quella che la natura stessa, tanto verso noi avara, non ci ha negata; vien manco per tua cagione nell'uomo. In guisa che quel solo genere di viventi che si trova esser capace del desiderio della morte, quello solo non abbia in sua mano il morire. La natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo sanguinosamente, con istrazio nostro e dolore inestimabile: tu accorri, e ci annodi strettamente le braccia, e incateni i piedi; sicché non ci sia possibile né schermirci né ritrarci indietro dai loro colpi. In vero, quando io considero la grandezza della infelicità umana, io penso che di quella si debbano più che veruna altra cosa, incolpare le tue dottrine; e che si convenga agli uomini, assai più dolersi di te che della natura. La quale se bene, a dir vero, non ci destinò altra vita che infelicissima; da altro lato però ci diede il poter finirla ogni volta che ci piacesse. E primieramente non si può mai dire che sia molto grande quella miseria la quale, solo che io voglia, può di durazione esser brevissima: poi, quando ben la persona in effetto non si risolvesse a lasciar la vita, il pensiero solo di potere ad ogni sua voglia sottrarsi dalla miseria, saria tal conforto e tale alleggerimento di qualunque calamità, che per virtù di esso, tutte riuscirebbero facili a sopportare. Di modo che la gravezza intollerabile della infelicità nostra, non da altro principalmente si dee riconoscere, che da questo dubbio di poter per avventura, troncando volontariamente la propria vita, incorrere in miseria maggiore che la presente. Né solo maggiore, ma di tanto ineffabile atrocità e lunghezza, che posto che il presente sia certo, e quelle pene incerte, nondimeno ragionevolmente debba il timore di quelle, senza proporzione o comparazione alcuna, prevalere al sentimento di ogni qual si voglia male di questa vita. Il qual dubbio, o Platone, ben fu a te agevole a suscitare; ma prima sarà venuta meno la stirpe degli uomini, che egli sia risoluto. Però nessuna cosa nacque, nessuna è per nascere in alcun tempo, così calamitosa e funesta alla specie umana, come l'ingegno tuo.
Queste cose io direi, se credessi che Platone fosse stato autore o inventore di quelle dottrine; che io so benissimo che non fu. Ma in ogni modo, sopra questa materia s'è detto abbastanza, e io vorrei che noi la ponessimo da canto.
Plotino. Porfirio, veramente, io amo Platone, come tu sai. Ma non è già per questo, che io voglia discorrere per autorità; massimamente poi teco e in una questione tale: ma io voglio discorrere per ragione. E se ho toccato così alla sfuggita quella tal sentenza platonica, io l'ho fatto più per usare come una sorta di proemio, che per altro. E ripigliando il ragionamento ch'io aveva in animo, dico che non Platone o qualche altro filosofo solamente, ma la natura stessa par che c'insegni che il levarci dal mondo di mera volontà nostra, non sia cosa lecita. Non accade che io mi distenda circa questo articolo: perché se tu penserai un poco, non può essere che tu non conosca da te medesimo che l'uccidersi di propria mano senza necessità, è contro natura. Anzi, per dir meglio, è l'atto più contrario a natura, che si possa commettere. Perché tutto l'ordine delle cose saria sovvertito, se quelle si distruggessero da se stesse. E par che abbia repugnanza che uno si vaglia della vita a spegnere essa vita, che l'essere ci serva al non essere. Oltre che se pur cosa alcuna ci è ingiunta e comandata dalla natura, certo ci comanda ella strettissimamente e sopra tutto, e non solo agli uomini, ma parimente a qualsivoglia creatura dell'universo, di attendere alla conservazione propria, e di procurarla in tutti i modi; ch'è il contrario appunto dell'uccidersi. E senza altri argomenti, non sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se stessa ci tira, e ci fa odiare la morte, e temerla, ed averne orrore, anche a dispetto nostro? Or dunque, poiché questo atto dell'uccidersi, è contrario a natura; e tanto contrario quanto noi veggiamo; io non mi saprei risolvere che fosse lecito.
Porfirio. Io ho considerata già tutta questa parte: che, come tu hai detto, è impossibile che l'animo non la scorga, per ogni poco che uno si fermi a pensare sopra questo proposito. Mi pare che alle tue ragioni si possa rispondere con molte altre, e in più modi: ma studierò d'esser breve. Tu dubiti se ci sia lecito di morire senza necessità: io ti domando se ci è lecito di essere infelici. La natura vieta l'uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere di farmi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere. Certo se la natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria, e odio della morte; essa non ci ha dato meno odio della infelicità, e amore del nostro meglio; anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni che quelle, quanto che la felicità è il fine di ogni nostro atto, e di ogni nostro amore e odio; e che non si fugge la morte, né la vita si ama, per se medesima, ma per rispetto e amore del nostro meglio, e odio del male e del danno nostro. Come dunque può esser contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel solo modo che hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di tormi dal mondo: perché mentre son vivo, io non la posso schifare. E come sarà vero che la natura mi vieti di appigliarmi alla morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio; e di ripudiar la vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e mala; poiché non mi può valere ad altro che a patire, e a questo per necessità mi vale e mi conduce in fatto?
Plotino. A ogni modo queste cose non mi persuadono che l'uccidersi da se stesso non sia contro natura: perché il senso nostro porta troppo manifesta contrarietà e abborrimento alla morte: e noi veggiamo che le bestie; le quali (quando non sieno forzate dagli uomini o sviate) operano in ogni cosa naturalmente; non solo non vengono mai a questo atto, ma eziandio per quanto che sieno tribolate e misere, se ne dimostrano alienissime. E in fine non si trova, se non fra gli uomini soli qualcuno che lo commette: e non mica fra quelle genti che hanno un modo di vivere naturale; che di queste non si troverà niuno che non lo abbomini, se pur ne avrà notizia o immaginazione alcuna; ma solo fra queste nostre alterate e corrotte, che non vivono secondo natura.
Porfirio. Orsù, io ti voglio concedere anco, che questa azione sia contraria a natura, come tu vuoi. Ma che val questo; se noi non siamo creature naturali, per dir così? intendo degli uomini inciviliti.(2) Paragonaci, non dico ai viventi di ogni altra specie che tu vogli, ma a quelle nazioni là delle parti dell'India e della Etiopia, le quali, come si dice, ancora serbano quei costumi primitivi e silvestri; e a fatica ti parrà che si possa dire, che questi uomini e quelli sieno creature di una specie medesima. E questa nostra, come a dire, trasformazione; e questa mutazion di vita, e massimamente d'animo; io quanto a me, ho avuto sempre per fermo che non sia stata senza infinito accrescimento d'infelicità. Certo che quelle genti salvatiche non sentono mai desiderio di finir la vita; né anco va loro per la fantasia che la morte si possa desiderare: dove che gli uomini costumati a questo modo nostro e, come diciamo, civili, la desiderano spessissime volte, e alcune se la procacciano. Ora, se è lecito all'uomo incivilito, e vivere contro natura, e contro natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire contro natura? essendo che da questa infelicità nuova, che risulta a noi dall'alterazione dello stato, non ci possiamo anco liberare altrimenti, che colla morte. Che quanto a ritornarci in quello stato primo, e alla vita disegnataci dalla natura; questo non si potrebbe appena, e in nessun modo forse, circa l'estrinseco; e per rispetto all'intrinseco, che è quello che più rileva, senza alcun dubbio sarebbe impossibile affatto. Qual cosa è manco naturale della medicina? così di quella che si esercita con la mano, come di quella che opera per via di farmachi. Che l'una e l'altra, la più parte, sì nelle operazioni che fanno, e sì nelle materie, negli strumenti e nei modi che usano, sono lontanissime dalla natura: e i bruti e gli uomini selvaggi non le conoscono. Nondimeno, perocché ancora i morbi ai quali esse intendono di rimediare, sono fuor di natura, e non hanno luogo se non per cagione della civiltà, cioè della corruttela del nostro stato; perciò queste tali arti, benché non sieno naturali, sono e si stimano opportune, e anco necessarie. Così questo atto dell'uccidersi, il quale ci libera dalla infelicità recataci dalla corruzione, perché sia contrario alla natura, non seguita che sia biasimevole: bisognando a mali non naturali, rimedio non naturale. E saria pur duro ed iniquo che la ragione, la quale per far noi più miseri che naturalmente non siamo, suol contrariar la natura nelle altre cose; in questa si confederasse con lei, per torci quello estremo scampo che ci rimane; quel solo che essa ragione insegna; e costringerci a perseverare nella miseria.
La verità è questa, Plotino. Quella natura primitiva degli uomini antichi, e delle genti selvagge e incolte, non è più la natura nostra: ma l'assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un'altra natura; la quale noi abbiamo, ed avremo sempre, in luogo di quella prima. Non era naturale all'uomo da principio il procacciarsi la morte volontariamente: ma né anco era naturale il desiderarla. Oggi e questa cosa e quella sono naturali; cioè conformi alla nostra natura nuova: la quale, tendendo essa ancora e movendosi necessariamente, come l'antica, verso ciò che apparisce essere il nostro meglio; fa che noi molte volte desideriamo e cerchiamo quello che veramente è il maggior bene dell'uomo, cioè la morte. E non è maraviglia: perciocché questa seconda natura è governata e diretta nella maggior parte dalla ragione. La quale afferma per certissimo, che la morte, non che sia veramente un male, come detta la impressione primitiva; anzi è il solo rimedio valevole ai nostri mali, la cosa più desiderabile agli uomini, e la migliore. Adunque domando io: misurano gli uomini inciviliti le altre azioni loro dalla natura primitiva? Quando, e quale azione mai? Non dalla natura primitiva, ma da quest'altra.nostra, o pur vogliamo dire dalla ragione. Perché questo solo atto del torsi di vita, si dovrà misurare non dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva? Perché dovrà la natura primitiva, la quale non dà più legge alla vita nostra, dar legge alla morte? Perché non dee la ragione governar la morte, poiché regge la vita? E noi veggiamo che in fatto, sì la ragione, e sì le infelicità del nostro stato presente, non solo estinguono, massime negli sfortunati e afflitti, quello abborrimento ingenito della morte che tu dicevi; ma lo cangiano in desiderio e amore, come io ho detto innanzi. Nato il qual desiderio e amore, che secondo natura, non sarebbe potuto nascere; e stando la infelicità generata dall'alterazione nostra, e non voluta dalla natura; saria manifesta repugnanza e contraddizione, che ancora avesse luogo il divieto naturale di uccidersi. Questo pare a me che basti, quanto a sapere se l'uccider se stesso sia lecito. Resta se sia utile.
Plotino. Di cotesto non accade che tu parli, Porfirio mio: che quando cotesta azione sia lecita (perché una che non sia giusta né retta non concedo che possa esser di utilità), io non ho dubbio nessuno che non sia utilissima. Perché la quistione in somma si riduce a questo: quale delle due cose sia la migliore; il non patire, o il patire. So ben io che il godere congiunto al patire, verisimilmente sarebbe eletto da quasi tutti gli uomini, piuttosto che il non patire e anco non godere: tanto è il desiderio, e per così dir, la sete, che l'animo ha del godimento. Ma la deliberazione non cade fra questi termini: perché il godimento e il piacere, a parlar proprio e diritto, è tanto impossibile, quanto il patimento è inevitabile. E dico un patimento così continuo, come è continuo il desiderio e il bisogno che abbiamo del godimento e della felicità, il quale non è adempiuto mai: lasciando ancora da un lato i patimenti particolari ed accidentali che intervengono a ciascun uomo, e che sono parimente certi; intendo dire, è certo che ne debbono intervenire (più o meno, e d'una qualità o d'altra), eziandio nella più avventurosa vita del mondo. E per verità, un patimento solo e breve, che la persona fosse certa che, continuando essa a vivere, le dovesse accadere; saria sufficiente a fare che, secondo ragione, la morte fosse da anteporre alla vita: perché questo tal patimento non avrebbe compensazione alcuna; non potendo occorrere nella vita nostra un bene o un diletto vero.
Porfirio. A me pare che la noia stessa, e il ritrovarsi privo di ogni speranza di stato e di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita, anco a chi si trovi in istato e in fortuna, non solamente non cattiva, ma prospera. E più volte mi sono maravigliato che in nessun luogo si vegga fatta menzione di principi che sieno voluti morire per tedio solamente, e per sazietà dello stato proprio; come di genti private e si legge, e odesi tuttogiorno. Quali erano coloro che udito Egesia, filosofo cirenaico, recitare quelle sue lezioni della miseria della vita; uscendo della scuola, andavano e si uccidevano: onde esso Egesia fu detto per soprannome il persuasor di morire; e si dice, come credo che tu sappi, che all'ultimo il re Tolomeo gli vietò che non disputasse più oltre in quella materia.(3) Che se bene si trova di alcuni, come del re Mitridate, di Cleopatra, di Ottone romano, e forse di alquanti altri principi, che si uccisero da se stessi; questi tali si mossero per trovarsi allora in avversità e in miseria, e per isfuggirne di più gravi. Ora a me sarebbe paruto credibile che i principi più facilmente che gli altri, concepissero odio del loro stato, e fastidio di tutte le cose; e desiderassero di morire. Perché, essendo eglino in sulla cima di quella che chiamasi felicità umana, avendo pochi altri a sperare, o nessuno forse, di quelli che si dimandano beni della vita (poiché li posseggono tutti); non si possono prometter migliore il domani che il giorno d'oggi. E sempre il presente, per fortunato che sia, è tristo e inamabile: solo il futuro può piacere. Ma come che sia di ciò; in fine, noi possiamo conoscere che (eccetto il timor delle cose di un altro mondo) quello che ritiene gli uomini che non abbandonino la vita spontaneamente; e quel che gl'induce ad amarla, e a preferirla alla morte; non è altro che un semplice e un manifestissimo errore, per dir così, di computo e di misura: cioè un errore che si fa nel computare, nel misurare, e nel paragonar tra loro, gli utili o i danni. Il quale errore ha luogo, si potrebbe dire, altrettante volte, quanti sono i momenti nei quali ciascheduno abbraccia la vita, ovvero acconsente a vivere e se ne contenta; o sia col giudizio e colla volontà, o sia col fatto solo.
Plotino. Così è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia ch'io ti consigli, ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e dell'universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coll'ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande l'alterazione nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte dell'uomo antico. Il che, mal grado che n'abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl'idioti, ma dagl'ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell'uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai: benché queste disposizioni dell'animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata leggermente la disposizione del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all'intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell'animo. E ciò basta all'effetto di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa della verità, nondimeno a mal grado della ragione, e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso (si può dire), e non l'intelletto, è quello che ci governa.
Sia ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso? Io so bene che non dee l'animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d'animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni, o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.
In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l'uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l'anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.
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